Doppio CIAK, in schegge.

Creato il 20 novembre 2012 da Cotone
Surreale, ossessivo, molteplice e pacchianoE' il 1974 e il grasso, pazzo, mastodontico Ken Russell arriva a Cannes con Mahler, film che idealmente precede Listzomania e accompagna The music lovers: biografie -alquanto figurative, diciamolo!- dei grandi Listz e Cajkosvskij. Il barocchissimo Russell dirige con un gusto più pesante del solito, a cominciare dalla scelta della gamma cromatica, cioè dalle numerose variazioni del grigio e del viola e dall'odore del colore in generale, che mi ricorda l'aroma un po' appassito dei cassetti in naftalina. Si dirà come al solito che il regista è sovra-esposto: bene, è un elemento che dall'impassibile Ken Russell non estrarrete neanche con il forcipe. Regista torreggiante nell'underground inglese, è entrato a più riprese nelle scatole alla moda del genio. E se non ne è uscito pazzo è solo perché è un tipo abituato a raschiare il fondo. Al suo Mahler, un pallido ebreo di tedeschissima lingua, mancano -ahimè- numerosi talenti. Ma le nevrosi ossessive del grande compositore austriaco si schiantano al fondo dei nostri nervi come robusti filamenti di solitudine. La densità (timbrica, iconoclasta) delle sezioni surrealiste, freudiane (ma solo per caricatura), ci rende sordi alla monotonia del ritmo filmico e -meglio ancora- alla tremenda carenza di una partitura narrativa sempre troppo docile, che tenta di fare acrobazie sulla scena stinta di una carrozza in movimento. Perché dove Ken Russell può essere veramente se stesso non c'è un solo difetto, statene certi. Il gusto dell'idolo, quasi pagano, sibarita, incide sulla pellicola un culto delle immagini che -al solito- è in pompa magna. E' incredibile, è l'uso occulto, psicologico della figura e del colore; è la luce, che sembra irradiarsi direttamente dalle cose e dalle persone; è la sovrapposizione di metafore e cronache; è il gusto privilegiato, spassoso per la midriasi dell'anima; è il suo essere più umano dei suoi pensieri a renderlo quel che è: un ultramoderno sir John Falstaff. E' più morboso certo, più perverso, ma non meno grottesco. E come lui, forse, ha capito che il limite -in ogni sistema linguistico- è nella vulnerabilità dell'altro1975: Psico-antologia d'avanguardia. Un anno dopo il "Nostro" è di nuovo a Cannes, stavolta fuori concorso, ma con un film che ci ricorda ancora una volta quanto sia estremo, scintillante e suonato il grassone di Southampton. Sono tornati gli ombretti, i pois, i lustrini e le provocazioni illustri, ma al centro della scena ci sono gli Who o meglio un disco rock che è anche un'opera, insomma una roba assurda, che all'anagrafe è Tommy. Mostro eterodosso, eclettico e decadente. Parabola favolistica che può permettersi di sezionare e agganciare in 115 prodigiosi minuti il prebellico, il post-bellico, il post-punk, il punk rock, la new wave, l'acida sonorità delle viscere anatomiche e l'amara sensazione che la parte più interessante della storia ce l'abbiamo sotto la pelle. Solo Ken Russell poteva permettersi di generare un simile aborto. Ma solo per brillare meglio, s'intende. 

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