Dora Pistillo

Creato il 07 settembre 2010 da Viadellebelledonne

 Nata a Rivarolo Canavese nel 1889. E’ autrice di un unico verso (Amo cogliere rose/più delle rose) che suona come una puntualizzazione polemica a quello, celeberrimo, di Guido Gozzano (Non amo che le rose/ che non colsi), atta a rimarcare la propria preferenza verso la poetica di Vincenzo Cardarelli. Il verso, a detta del critico Ettore Nunes, avrebbe aperto la via all’ermetismo. Appassionata di botanica e fisiologia delle piante, morì a Caracas in Venezuela, nel 1950.  

(da Gafyn e i suoi fratelli di Giacomo Papi /Supplemento La Repubblica D n.70)

 Scorreva allegro il torrente Orco, nel Canavese, quando Dora emise il suo primo vagito. Era cominciato il disgelo in quella precoce primavera del 1889 e le sorgenti del corso d’acqua, alle pendici del Gran Paradiso, ricominciavano a cantare dopo il silenzio dell’inverno. Anche la neomamma, ora, dopo le fatiche bestiali del parto, fradicia di sudore, ma finalmente sollevata dallo strillo vigoroso della sua piccina, lo sentiva: era un rumore atteso, desiderato da tutta la piccola comunità di Rivarolo Canavese perché indicava la fine del freddo, delle giornate trascorse  nelle case buie, dei tetti oppressi dalla neve, delle mani indolenzite dai geloni. Le parve di buon augurio. “Lo senti? E’ il saluto a Dora, le porterà bene! Ho l’impressione che di questa figlioletta si parlerà a lungo” azzardò la levatrice, anche lei provata da quel parto difficile, coi piedi gonfi dalla stanchezza e le ombre sotto gli occhi.

 In un posto come quello era considerata alla stregua del medico, che non c’era mai e doveva dividersi con altri posti da lupi alle pendici della Montagna. Così era  Dorina che chiamavano le donne impaurite dalle prime doglie e lei arrivava sempre, fosse stato anche il cuore della notte, rassicurava, accarezzava e guidava la nascita della nuova creatura. Le puerpere erano così grate a quella figura sottile, tenace e determinata, che in molte finivano per chiamare come lei la loro neonata. Rosa se la guardava con orgoglio la sua primogenita: bianca e rossa, la testina implume appena ombreggiata da una lieve peluria. Il suo Luigi ne sarebbe stato orgoglioso, anche se aspettava il maschio, come tutti i contadini e i montanari. Lei no: anche se non aveva mai osato dirglielo apertamente, pregava per la femmina, che le avrebbe fatto compagnia, aiutata nelle fatiche di casa, nel bucato al ruscello e nel ricamo del corredo. Era così bella quella sua piccina che Luigi non avrebbe detto nulla, forse un sospiro, ma niente di più. Del resto quella gravidanza quanto le era costata! Dopo l’aborto di due anni prima e il divieto da parte del medico di riprovarci per almeno un anno, Luigi non le dava pace: aveva paura di restare senza figli: “Ma siamo giovani! Avremo tanto tempo…” “Il tempo passa veloce, Rosa! I figli si fanno subito” La rispettava con impazienza, consolandosi col vino, ammazzandosi di lavoro. Così, passato l’anno, il suo assedio amoroso non aveva conosciuto tregua e Rosa si era ritrovata incinta di nuovo. “Dora possiamo chiamarlo, ora?”  “Ma certo, Rosa, sei sistemata e Dora è un fiore. Ora è giusto che il padre conosca sua figlia” e si affacciò a chiamarlo. “Luigi, vieni a conoscere tua figlia”gridò. L’uomo, alto, snello, bruno, una faccia sveglia e buona si precipitò al capezzale del letto: vide le occhiaie sul viso della moglie ma anche la dolcezza del suo sorriso stanco e poi il fagottino che  le stava accanto, gli occhietti già spalancati sul mondo, le minuscole dita intrecciate e pianse: di commozione, di gioia, di tensione allentata. Era padre. Non le importava nulla del maschio, dei pregiudizi che gli avevano inculcato i vecchi. Ora c’era questa bambina da crescere e proteggere. E lui ne era felice. Rosa tirò il fiato e lo baciò sulla guancia: in camera c’era ancora Dorina.

Il castello di Malgrà si ergeva in tutta la sua imponenza appena fuori dell’abitato di Rivarolo: era un antico presidio militare risalente al Medioevo, che nel 1400, per volere dei Savoia, si era trasformato in un complesso architettonico armonioso, grazie agli interventi decorativi della facciata e del portico interno. Quegli abbellimenti avevano allontanato negli abitanti la memoria degli antichi assedi quando le mura erano state protagoniste delle feroci lotte tra le famiglie nobiliari indigene per il dominio del borgo. L’intervento sabaudo aveva costretto i contendenti a cedere il passo a signori più forti. di loro e Malgrà aveva potuto godere di un lungo periodo di pace. Nei secoli successivi, altri restauri, tra cui quello iniziato solo cinque anni prima della nascita di Dora, fortemente voluto dalla Contessa Natalia Francesetti, avevano definitivamente trasformato l’originario fortilizio in una vera residenza. Il merito andava tutto all’architetto Alfredo d’Andrade e al suo allievo, l’ingegnere Carlo Nigra, che ne proseguì l’opera fino al 1926: entrambi furono i moderni curatori, non solo dell’imponente complesso, ma anche della messa in opera del bel parco circostante. Dora era cresciuta, si può dire, all’ombra di quel parco e di quel castello. Se non ne fosse bastata la vista quotidiana  ad alimentare la sua fantasia, avrebbero sopperito i racconti del babbo e della mamma, che narravano di combattimenti, duelli, tornei, assedi e resistenze, castellane innamorate che calavano la treccia per avere nella propria stanza l’amato cavaliere o che minacciavano di gettarsi dalla torre per un amore infelice. La mamma parlava soprattutto di sentimenti, il babbo di guerra e nella testolina di Dora ronzavano pensieri e sogni in una confusione indistinta e eccitante. Del resto, stava molto in compagnia di se stessa o del fratellino che doveva guardare mentre i genitori lavoravano nei campi e portavano le mucche al pascolo. Quello che conosceva del castello, lo raccontava a sua volta al bambino, che però non appariva molto interessato a tutte quelle storie ingarbugliate. Allora smetteva, lo poneva all’ombra di un albero, in un posto sicuro e si dedicava all’altra sua passione, i fiori e le piante in generale.

Un giorno, il babbo la invitò a visitare il maniero dei suoi sogni e il parco: i lavori di restauro non erano finiti ma, grazie al giardiniere della Contessa, che era suo amico, aveva ottenuto il permesso di entrare a Malgrà, la domenica seguente, con la sua famiglia. Dora toccò il cielo con un dito. Non poteva desiderare di più e di meglio. Rosa vestì i bambini da gita in campagna; in abiti freschi e comodi erano anche lei e il marito. Si incamminarono lungo un viale d’olmi che regalavano un fresco delizioso. Oltre, una fitta siepe di carpini delimitava la proprietà. Dora non si saziava di guardare e ascoltare: su quegli alberi evidentemente sostavano centinaia d’usignoli, che deliziavano col loro canto i viandanti. I genitori erano di buon umore, cantavano e scherzavano come due ragazzi. Anche Giacomo era meno noioso del solito. Arrivati davanti alla grande facciata, Giovanni, il giardiniere li aspettava. Prese il cesto che Luigi teneva e lo pose sotto l’ultimo olmo: “Ecco, potete mangiare qui! Ma ora venite, vi faccio strada…Mica paura, bambini, di visitare un castello vero? Lo sapete che ci sono anche i fantasmi?” Dora lo guardò a bocca aperta e non capì perché i suoi genitori, invece d’esserne sbalordita come lei, ridevano e sembravano prenderla in giro. “Tranquilla, Dora, escono solo a notte fonda!” la rassicurò il babbo. Entrarono: la luce dell’esterno si rarefece all’improvviso, come il tepore di cui avevano goduto fino a quel momento. Fresco e ombra furono le prime sensazioni. Poi, un rosario di stanze, sale, saloni, camere da letto, studioli, cappelle, fino all’enormità della cucina, al saliscendi delle scale e degli scaloni, al labirinto dei corridoi, alla vertigine dei soffitti inarrivabili, all’ampiezza delle finestre, alla perfetta circolarità della torre. Era questa che intrigava di più la fantasia della bambina: possibile che non ci sia la vecchina della fiaba? Quella della Bella Addormentata? Per lei non era pensabile una torre senza una nonnina col fuso che, ignara del divieto del reame, continuava a filare imperterrita e non aveva bisogno di nulla: né di bere né di mangiare né di dormire. Ma non osava chiederlo. Si limitava  ascoltare la guida, che non la smetteva di declamare le meraviglie di quel posto, come se il Conte fosse lui.  “E ora non è nulla!- non si stancava di ripetere agli attenti spettatori – deve essere tutto decorato! La Contessa vuole il meglio degli artisti del Canavese, del Piemonte, dell’Italia!” E intanto giravano da un ambiente all’altro, senza tregua. Fu Giacomo a salvarli: “Mamma, ho fame! Andiamo via…”era la voce dell’innocenza a parlare. Solo allora Giovanni si rese conto di quanto tempo li aveva trattenuti tra quelle mura: “Il bambino ha ragione! Io sono troppo chiacchierone, me lo dovevate dire!”  “Ma no –si schermì il babbo- è tutto interessante, Giovanni! Grazie a te abbiamo visto il castello prima dei paesani”

Quando uscirono fuori, parve a Dora una liberazione: finalmente la luce, finalmente il sole! Corse con Giacomo verso il grande olmo, dove riposava il cesto in attesa, rendendosi conto solo allora della gran fame che aveva. La mamma non la deluse: c’erano i panini al latte che adorava, ancora croccanti per la recente cottura; c’era l’ultimo formaggio che avevano fatto, dove stavano incise le iniziali del suo nome; c’era una crostata d’uva, che profumava di vendemmia. Dopo mangiato, Giacomo si addormentò e anche i genitori si stesero accanto a lui, appisolandosi. Dora invece non aveva per niente sonno: era troppo eccitante scoprire da sola gli angoli del parco, guardare da vicino, come le farfalle, piante, fiori, pistilli. Del resto, lei stessa non si chiamava Pistillo? Vuol dire che era suo destino essere – come aveva sentito che si diceva?- una BOTANICA. Era una parola che aveva usato una volta la maestra e le era rimasta impressa ma fu senz’altro quel primo diretto contatto con la varietà e la bellezza del parco Malgrà a innamorarla. Corbezzoli, viburni, ligustri, biancospini, sanguinelli, sambuchi, scotani, cornioli formavano siepi miste a più filari; le bacche a forma di berretto di prete delle fusaggini cibavano i pettirossi. Dalle fronde più alte di olmi, platani, pioppi neri e bianchi e tigli, a quelle più basse dei cespugli, era tutto un trionfo di verde dalle mille inedite sfumature ma anche di fiori e di bacche. Dora camminava tra meli, ciliegi, peri selvatici, inciampando tra le liane dell’edera e i rovi delle more. Il profumo della terra umida, dei corbezzoli aranciati, del fogliame addormentato al suolo, il ronzio di qualche insetto inquieto e quello onnipresente degli usignoli le procuravano un grande benessere. Quasi si perse, trasognata com’era, e per un attimo si incarnò in Alice: anche lei avrebbe potuto vivere quell’esperienza straordinaria. Ma la voce della mamma la riportò alla realtà. Era tempo di ritornare a casa.

A sedici anni, Dora ne dimostrava un paio di più ed era una vera bellezza. A Rivarolo gli uomini e i ragazzi s’incantavano  a guardarla, quando passava. Gli occhi color nocciola erano grandi ed espressivi, la bocca carnosa. Aveva il portamento eretto e fiero della madre Rosa, ma il seno più alto e pieno. Le mani, malgrado i lavori domestici e quelli da contadina, mantenevano la grazia dell’esperta di fiori e di piante. Con le sue dita lunghe e affusolate, accarezzava corolle, controllava pistilli, eliminava parti superflue e ospiti indesiderati. Per mantenerle bianche e morbide, ogni sera le strofinava con succo di limone e le cospargeva di pomata alla glicerina.  Davanti alla sua camera, la ragazza coltivava un fazzoletto di giardino che era il suo vanto e la sua maggiore occupazione quando aveva finito di aiutare i genitori. In ogni stagione, colori corolle e profumi le rallegravano le ore: il trionfo era in primavera o a inizio estate quando rose gigli viole e gerani esplodevano nella loro sfacciata esuberanza, ma, anche dopo, ibischi ortensie dalie e petunie non smettevano di farle compagnia durante le sue letture pomeridiane e la stesura dei primi timidi versi. Da poco aveva scoperto infatti l’altra sua grande passione, la poesia. Era stata la sua insegnante d’italiano dell’avviamento che frequentava a incoraggiarla: si era accorta che scriveva bene, che aveva una tendenza lirica nelle descrizioni di paesaggi, ambienti, stati d’animo e l’aveva incoraggiata a leggere poeti classici e moderni. Tra questi, Cardarelli era il suo preferito, più di D’Annunzio, di cui non le piaceva l’ampollosità di certe strofe; più di Gozzano, troppo minimalista per i suoi gusti. Invece, il suo amato Vincenzo, come lo chiamava familiarmente in cuor suo, le appariva, al contempo, antiretorico ed efficace. Certe sue poesie, poi, la facevano quasi arrossire, per l’intensa fisicità che esprimevano:

Su te, vergine adolescente/sta come un’ombra sacra./Nulla è più misterioso/ e adorabile e proprio/della tua carne spogliata. […] Pure qualcuno ti disfiorerà/bocca di sorgiva/[…]E prendere ti lascerai/ma per vedere come il gioco è fatto/per ridere un poco insieme.

La leggeva e la rileggeva questa poesia, Adolescente, che sembrava scritta proprio per lei. Non c’era giorno in cui non pensasse all’amore, ai baci, agli abbracci, alla meraviglia di due corpi che si cercano e si fondono. Anche per gioco, anche per emozione, anche per riso. Ma quando questi pensieri la raggiungevano e la facevano arrossire di piacere e di vergogna, cercava subito di allontanarli, perché ben diverso era il tenore delle raccomandazioni di sua madre: “Mi raccomando, attenta ai ragazzi, alle fregature. Ricorda che basta poco a rovinarsi per sempre. Non concedere nulla, nemmeno al tuo fidanzato. Prima passa dall’altare”. Lei annuiva, imbarazzata, quando Rosa le parlava di questo. Ma sapeva poco o nulla. La parola sesso era tabù e apertamente non le era stato spiegato nulla. Conosceva qualcosa a pezzi e bocconi, grazie alle amiche più grandi e a qualche giovane sposa. Cercava di carpire qua e là informazioni, osservava la natura e vedeva gli animali accoppiarsi. Ne ritraeva lo sguardo turbata e affascinata. Intuiva soltanto, per ora, la gran forza dell’amore e dell’istinto. C’era un’altra poesia del Cardarelli che adorava, parlava di gabbiani.. Lei a Rivarolo non ne vedeva, ma li aveva conosciuti in Liguria, un’estate di molti anni prima, quando era bambina e gli zii l’avevano invitata per qualche giorno sulla riviera. Il mare l’aveva incantata e travolta d’emozioni; i gabbiani facevano parte di quel paesaggio che le si era scolpito nel cuore. Li aveva amati subito per la loro indipendenza, per il volo alto nel turchino del cielo e la planata nell’altro turchino del mare. Così, quando aveva letto i versi del poeta, li aveva subito memorizzati, per non dividersene mai più: 

Non so dove i gabbiani abbiano il nido/ove trovino pace./Io son come loro/in perpetuo volo./La vita la sfioro/com’essi l’acqua/ad acciuffare il cibo./E come forse anch’essi/amo la quiete/la gran quiete marina/ma il mio destino è vivere/balenando in burrasca.

C’era un solo verso che non la convinceva, la vita la sfioro: no, lei la vita la voleva vivere, pienamente e interamente; non si sarebbe accontentata di sfiorarla.

Dieci anni dopo, nel marzo 1915, quando ancora la neve s’intratteneva sul tetto della casa e solo gli steli più robusti e coraggiosi bucavano il terreno ancora freddo, se non gelato, Dora andava sposa a Vittorio, nella chiesetta di Rivarolo, addobbata personalmente da lei con mazzi di robinie e bucaneve. Tutto il paese l’avrebbe festeggiata per l’intera giornata e la notte seguente con rinfreschi, balli, canti e musica. Erano una bella coppia, benvoluti da tutti. Vittorio aveva ereditato la falegnameria dal padre, morto due anni prima, e vi lavorava con serietà e impegno: tra i trucioli e la segatura c’era cresciuto e il legno, nelle sue mani, sembrava pasta da modellare. Dora, per le sue conoscenze botaniche, era diventata la giardiniera del Castello di Malgrà. Per lei, quello non era neppure un lavoro, ma l’attività che da sempre amava: occuparsi di semi, arbusti, alberi e fiori, plasmare la terra, assistere alla nascita di piantine e germogli, alla crescita dei fusti, al loro irrobustirsi grazie all’acqua e alla luce, le ricordava ogni attimo il mistero e l’incanto della vita che si rinnova. La conoscevano tutti nella zona e spesso venivano a chiederle consigli. Dunque, Dora e Vittorio se la passavano bene economicamente e potevano metter su famiglia: anche nella vita privata, dopo il primo ruvido rodaggio, avevano trovato l’armonia. Purtroppo per soli due mesi. Quando, nel maggio, l’Italia entrò nella Grande Guerra, Vittorio fu subito richiamato e partì per il fronte con la morte nel cuore. Tra l’altro, Dora era incinta: un solo mese d’amore le era bastato per diventare madre. Vittorio dal fronte le scriveva lettere strazianti: aveva paura per sé, perché la morte viaggiava coi colpi di cannone, era in agguato nelle trincee, si mangiava giovani vite, ne rovinava altre per sempre e ogni minuto poteva essere l’ultimo. Ma aveva paura anche per lei, per quel minuscolo germoglio che portava in seno e che era sbocciato come i fiori a primavera. Dora piangeva e si struggeva per quelle lettere e la fulminava il pensiero che mentre si rallegrava nel riceverle, lui, nel frattempo, poteva essere stato ferito a morte o mutilato. Si sentiva totalmente impotente e l’unico appiglio a cui si aggrappava era la preghiera: staccava l’immagine sacra dalla parete del suo comodino, si inginocchiava e cominciava a pregare. Parole sue, preghiere consuete, invocazioni a mani giunte. Solo questo riusciva a rasserenarla per un po’ perché le sembrava di aver fatto tutto ciò che era sotto il suo controllo, l’irrisorio controllo che dipendeva da lei. Trascorse così l’estate, tra speranze e paure, patemi d’animo e gioie di gravidanza: l’esserino nel suo grembo si comportava bene, quasi si rendesse conto della difficoltà dei genitori e di quello che si agitava intorno a loro. Dora ebbe poche e brevi nausee e invece tanto appetito e smania di fare. Rosa la rimproverava: “Ma non ce la fai a riposarti, a mettere da parte energie per quando nasce? I primi mesi sono delicati e tu hai già visto qualcosa, hai già avuto una minaccia d’aborto Guarda Teresa, com’è quieta! Si fa fare tutto da Giacomo…” “Tranquilla, mamma, starò attenta, meno male che al castello sono stati comprensivi e non mi hanno mandato via per sempre… ma lo sai che io sono inquieta per natura… e poi io non ho il marito accanto che mi può viziare…mica è stato riformato come mio fratello” e dicendo questo lasciava trapelare suo malgrado l’orgoglio d’avere un marito sano e forte, non come Giacomo, reduce da una polmonite che l’aveva prostrato per mesi e fatto preoccupare fino alla disperazione la famiglia. “L’unica cosa che ti può far stare ferma sono i libri. Te ne voglio procurare uno…” “Mi raccomando che sia di poesia!” pregò Dora che non aveva scordato il suo antico amore.  Qualche giorno dopo, Dora arrivò con una raccolta di poesie di Guido Gozzano: “Me l’ha consigliato quello della Biblioteca” si giustificò Rosa che non vide per nulla entusiasta sua figlia “Meglio che nulla” ammise Dora e cominciò a sfogliare pigramente le prime pagine. La madre lavorava anche per lei, lavava i panni di tutti al torrente, teneva dietro all’orto e alle bestie, ora che anche Luigi era partito per il fronte, e poi cucinava e puliva.  Rosa sentiva sulle sue spalle la responsabilità di tutta la famiglia, ma aveva così sofferto per la malattia del figlio, aveva così temuto per la sua vita, che, a paragone, la fatica le sembrava una passeggiata. Gli anni l’avevano riempita: i seni ora premevano sul corpetto e i fianchi fasciavano la stoffa dei vestiti. Era ancora giovane, ma stava per diventare nonna e quasi si vergognava di  quella sua femminilità prorompente, che suscitava negli uomini di Rivarolo –lo notava nei loro sguardi e nei saluti prolungati- sorpresa e ammirazione. E di questo arrossiva, facendosi rabbia, come una ragazzina.

E lesse a lungo, Dora, la sera, a letto, al lume di candela, nella cameretta della sua infanzia, ora che lei e la mamma erano rimaste sole e si facevano compagnia nella stessa casa:

Il mio sogno è nutrito d’abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/che non colsi. Non amo che le cose/che potevano essere e non sono/state…Vedo le case, ecco le rose/del bel giardino di vent’anni or sono!

 Guido Gozzano, chi sei? Riuscirò a capirti davvero? So che sei malato, la tisi ti divora i polmoni, come poteva accadere a mio fratello. Povero Guido, nemmeno il viaggio in India ti giova. Ho compassione di te, di noi, di questa giovinezza tragica appesa a un filo, per la malattia, per la guerra. Mi piace la tua ironia, la tua apparente ingenuità. Oltre le parole si avverte il tuo spirito monello, che il male non ha consumato. Ho saputo che eri una peste a scuola e avevi poca voglia di studiare. Però la poesia ti è sempre piaciuta. Abbasso giurisprudenza, viva lettere! Sono maliziose le tue poesie: alludono, sono fintamente caste. Questa, per esempio, Cocotte, è fresca, frizzante, maliziosa. Non amo che le rose che non colsi! Il rimpianto di qualcosa che non c’è stato. E come poteva? Tu avevi quattro anni. E lei? Venticinque-trenta, forse: bella elegante raffinata, magari con la veletta che le adombrava il viso. Ti vide: gentile, biondo, irresistibile, il bambino che non aveva, che non poteva avere, data la sua vita. Ti sfiorò con un bacio, che ti turbò per sempre. Chiedesti a tua madre. E’ una cocotte!  rispose. Ti sembrò buffo quel nome:

Co-co-tte…La strana voce parigina/dava alla mia fantasia bambina/un senso buffo d’ovo e di gallina…/Pensavo deità favoleggiate:/i naviganti e l’Isole Felici…/Co-co-tte le fate intese a malefici/con cibi e con bevande affatturate…/Fate saranno, chissà quali fate,/e in chi sa quali tenebrosi offici!

Tua madre precisò: vuol dire cattiva signorina:/non bisogna parlare alla vicina!

Quel turbamento è stato allora? O dopo, a posteriori? Fatto sta che non l’hai scordata e vent’anni dopo la vorresti vedere, baciare, amare. Non amo che le rose che non colsi! Guido, perché? Il rimpianto è più forte del rimorso? O perché senti che la vita ti sottrae vita irrimediabilmente?  Io no, non sono come te, non sono fatta per il rimpianto: le rose che mi si offrono le voglio cogliere tutte, senza scordare nemmeno un bocciolo appena dischiuso. Anzi, sai che ti dico?! Che Amo cogliere rose/più delle rose. Ecco, in questo verso si condensa la mia personalità: è il fare, l’agire, il vivere giorno dopo giorno che mi attrae, perché è dall’azione che scaturiscono le occasioni e da esse la completezza della vita. Anche se è una vita minima, semplice come la mia, condita di lavoro, di attesa, di sofferenza, d’amore. Dora non poteva sospettarlo, quella notte, ma questo suo verso, quest’unico suo verso, avrebbe aperto la porta all’ermetismo, secondo il critico letterario Ettore Nunes. Lasciò spengere la fiamma della candela: la poesia l’aveva fatta riflettere più di quello che immaginava mentre la casa sprofondava nel buio e nel silenzio; si avvertiva di tanto in tanto solo il respiro più forte della madre, aldilà della parete.

  L’urlo del neonato svegliò Vittorio dallo stato di torpore a cui si era abbandonato: i pochi giorni di licenza che aveva ottenuto per Natale erano coincisi con le doglie di Dora. Non sapeva se rallegrarsene o rimpiangere le pur drammatiche ore del fronte. L’avevano tenuto fuori dalla camera, avevano fatto tutto Dorina, invecchiata ma ancora in gamba, e Rosa. Sua suocera era eroicamente riuscita a deporre il fardello del suo strazio in un angolo del cuore e ad aiutare sua figlia a partorire. La notizia della morte di Luigi era arrivata quindici giorni prima e l’aveva fulminata. Anche una quercia come lei poteva essere schiantata da una saetta. E così era successo. Da due settimane non riusciva a mangiare; il suo stomaco accettava solo una tazza di latte ogni tanto e le ore di sonno erano incubi di dormiveglia. Solo il dovere di madre l’aveva scossa e portata al capezzale di Dora: “Lo chiameremo Luigi!” quasi gridò quando vide che era un maschio. La figlia esausta annuì con un’ombra di sorriso. A Vittorio, finalmente congedato, non bastò però la nascita di quella nuova creatura per riaversi. Troppo aveva visto, troppo aveva sofferto: la sua sensibilità lo faceva vacillare come un veliero in burrasca, anche ora che era al riparo dalla guerra, dai cannoni, dalle trincee. Qual era la normalità? Come si potevano ricucire i pezzi strappati della sua anima? Con quale ago miracoloso? Come accettare la morte di tanti compagni, la mutilazione di altri, la spietatezza di certi ufficiali, l’obbedienza acritica pretesa e brutalmente imposta ai soldati mandati al massacro  come carne da macello? Che senso aveva? Per chi e per cosa? La propaganda diceva: quarta guerra d’indipendenza, patria, onore, Italia unita. Ma a che prezzo? Non era accettabile, non era umano. E Luigi, il babbo di Dora, ancora giovane, pieno di vita, era adesso in una fossa a marcire. Come migliaia di altri esseri umani. Lo sapeva, avrebbe dovuto accantonare i pensieri, aprire di nuovo la falegnameria, darsi da fare, mandare avanti la famiglia. Ma era come paralizzato: nella volontà, nei desideri, nei progetti, persino nella speranza. Come se fosse morto anche lui, nello spirito, in quelle trincee. La voglia di vita s’era spenta, come una candela consumata. Non lo attraeva nulla, nemmeno quella meraviglia di suo figlio, nemmeno la sua Dora, che di notte gli si avvicinava, lo accarezzava, premeva col suo corpo giovane e caldo il suo. Niente. Era come sdoppiato: da un lato la ragione, la volontà, l’istinto vitale; dall’altro l’irrazionalità, la passività, l’incubo, l’inerzia. E questi mostri vincevano su tutto. Capiva di mettere in pericolo anche il suo matrimonio, la relativa serenità di tutta la famiglia. Decise di curarsi. Il medico da cui si recò,  che già conosceva bene la depressione post-bellica di tanti soldati, gli consigliò d’andarsene, se poteva, il più lontano possibile, per costruirsi dalle fondamenta, una nuova vita. “E come? Dove?” balbettò Luigi “Devi tagliare i ponti col passato, mettere magari il mare tra la guerra e la nuova terra. Devi rinascere. Vattene, cerca fortuna altrove” “Impossibile –insistette Luigi- qui ho il lavoro, se riesco a riaprire la falegnameria e Dora ha il suo. Come faccio?!” Però quel pensiero germinò in lui come un seme capitato casualmente su un terreno fertile. Impiegò cinque anni per farlo diventare una pianta robusta, un progetto concreto e a convincere Dora. Nel 1921, venduta la falegnameria, emigrò in Venezuela con la moglie, il figlio e la suocera, il cognato, la cognata e la nipote.

Il Venezuela, la piccola Venezia di Cristoforo Colombo, negli anni Venti del secolo scorso era una terra che già dalla metà dell’ 800 conosceva una stabile colonizzazione italiana. Il Paese dalle pianure sconfinate, dai paesaggi alterni, dalle belle montagne, dai corsi d’acqua imponenti, dalle cascate mozzafiato, dal clima tropicale ben tollerato anche dalle genti mediterranee, attraeva costantemente emigranti in cerca di fortuna. Gli Italiani erano fra i più numerosi e si dedicavano soprattutto al piccolo e grande commercio, anzitutto nella capitale, Caracas, ma anche a Valencia, Maracaibo e in tutto lo stato delle Los Andes dove si trovavano i grandi produttori di cereali e di caffè, che provenivano in gran parte dall’Isola d’Elba. Era molto vivace anche l’importazione dall’Italia di vino, olio, salumi, conserve alimentari, cappelli di paglia, prodotti artigianali, gioielli, tessuti, oggetti artistici, che venivano diffusi sul territorio da empori e case d’importazione italiane, che occupavano un posto di rilievo nell’alto commercio venezuelano. La numerosa presenza dei nostri connazionali era anche testimoniata da due periodici in lingua italiana, la Voce d’Italia e Commercio italo-venezolano. Inoltre, a Caracas, fin dalla fine dell’800 operava una grande impresa italiana il cui titolare era un personaggio destinato a svolgere un ruolo di primo piano in tutte le vicende successivamente connesse con i progetti d’immigrazione. Era il conte Giuseppe Orsi di Broglia di Mombello. La sua impresa costruiva nella capitale quartieri abitativi per la classe operaia e piccolo-borghese. Il più grosso freno all’incoraggiamento colonizzatore fu, negli anni successivi, una notevole anarchia politica, che alternava colpi di stato a periodi di relativa democrazia. Ma la scoperta del primo pozzo petrolifero nel 1917 diffuse in Venezuela uno stato d’euforia che nemmeno le travagliate vicende politiche riusciranno a ridimensionare. Ricominciò il flusso immigratorio. Dal Piemonte non mancò chi fu disposto a lasciare baracca e burattini, a chiudere delusioni, sogni e progetti in una valigia, per raggiungere il porto di Genova e imbarcarsi alla volta dell’America. Fra questi. c’erano Vittorio e la sua famiglia.

 Dora non si rassegnava a lasciare l’Italia, il Piemonte, Rivarolo. Le pareva quasi sacrilego abbandonare la terra delle radici per andare raminghi a cercar fortuna altrove. E’ vero che Vittorio era stato traumatizzato dalla guerra; che a distanza di due anni si svegliava gridando in piena notte per l’incubo ricorrente di saltare in aria o ritrovarsi senza gambe coi moncherini insanguinati; che in paese non c’era lavoro, la crisi economica mordeva e la falegnameria rimaneva inoperosa; però, secondo lei, ce l’avrebbero potuta fare senza quel sacrificio sproporzionato. Purtroppo, al contrario, per suo marito, ANDARSENE era diventata un’autentica ossessione e stava minacciando seriamente il suo matrimonio. Avrebbe voluto scegliere di restare lei a casa e mandare lui in America; ma sua madre era stata inflessibile: una moglie deve seguire il proprio marito. Non è lui il capofamiglia? E il dovere di una buona moglie non è quello di seguire il suo uomo nella buona e nella cattiva sorte? E a suo figlio non ci pensava? Come sarebbe cresciuto senza un padre? E le chiacchiere di paese? Avrebbe resistito alle tentazioni, alle malelingue, a eventuali seduttori  di  stanche vedove bianche, ad aspettare pazientemente Vittorio che, dopo essersi organizzato laggiù, li avrebbe portati a loro volta in America, sempre se non si fosse fatto nel frattempo una famiglia clandestina oltreoceano? Era così che andavano spesso queste storie!  Dora si trovava perciò in uno stato d’agitazione permanente. Sentiva che i ragionamenti di sua madre erano razionali; ma avvertiva anche confusamente che non era per niente giusto che lei e suo figlio fossero sacrificati al volere di Vittorio. La sua femminilità, che pure amava, in queste circostanze le appariva intollerabile: perché la sua volontà doveva contare così poco? Eppure negli anni aveva dimostrato quanto valeva e, da quando Vittorio era in crisi, la sua capacità  di mandare avanti la baracca! Nel suo malcontento a voler partire c’era poi anche un motivo professionale: era diventata una botanica esperta, si era sacrificata ad andare a Torino a frequentare un corso di fisiologia delle piante, che ora conosceva come le proprie tasche, ma relativamente al proprio territorio. Anche per questo motivo le pesava particolarmente andarsene, approdare in un paese tropicale con una flora del tutto diversa e sconosciuta. Insomma mettere la voragine dell’oceano tra sé e il paese che amava le risultava dolorosamente intollerabile. E poi, Vittorio l’amava e lei amava lui? Si erano molto allontanati negli ultimi due anni, la loro intimità era rara e problematica. Sicuramente dipendeva dalla depressione in cui era piombato ma Dora era troppo sensibile per abbandonarlo. Nella buona e nella cattiva sorte: le parole di Don Sandro, quando si erano sposati, le risuonavano nelle orecchie. Ecco, ora erano immersi nella cattiva sorte, ma sarebbe arrivata la buona. Il suo ottimismo di fondo l’aiutava. Non le interessava nemmeno scandagliarsi per tentare di rispondere alla domanda sul suo amore per lui. Gli voleva bene, era il padre di suo figlio e questo richiedeva di stargli accanto. Così, malgrado tutte le riserve e i tentennamenti sull’opportunità della partenza, fu poi un banale episodio a farla decidere. “Sai Dora cosa ho saputo di Caracas? – le chiese un giorno il marito- che il suo nome deriva da un fiore chiamato caraca dagli indigeni, che fioriva a perdita d’occhio nella valle dove poi è sorta la città. In Europa è conosciuto come amaranto. Viene anche mangiato perché è molto nutriente. Interessante, no?” A Dora quello apparve un segno, un segno del destino. Doveva andare. Anche là avrebbe potuto esercitare e valorizzare il suo amore per le piante e i fiori. Botanica tropicale: sarebbe diventata esperta anche di quella. Aveva smesso il broncio, l’aria risentita e si era preparata serenamente per la partenza.

L’impatto che il profilo della città di Caracas ebbe su Dora e la sua famiglia, aggrappati col fiato sospeso al parapetto della nave, fu molto positivo, dopo il viaggio difficile e a tratti drammatico che volgeva finalmente al termine. Avevano sofferto il mal di mare in modo indicibile: la nausea li aveva accompagnati quotidianamente, a parte Vittorio, che sopportava bene la furia dell’oceano, e il piccolo Luigi, che aveva ben altro da fare su quel vapore che stare a gola aperta a vomitare l’anima. Così, tutti, tranne lui e il padre, apparivano dimagriti e provati, dopo un mese di navigazione. La sagoma del monte El Avila e il nastro luccicante del Rio Guaire apparvero perciò ai loro occhi, esausti d’acqua e di cielo, come i primi elementi naturali di quel Paradiso Terrestre, dove finalmente erano approdati dopo la discesa agli Inferi della traversata. Quindi, compiute le operazioni di sbarco e superati gli inevitabili inciampi, fu l’ organizzazione coloniale italiana, attiva e concreta, a fare loro da bussola. Fu così che in un lasso di tempo abbastanza breve e senza patire particolari umiliazioni o restrizioni, riuscirono a sistemarsi in appartamenti discreti nel cuore della città. Lo sviluppo urbanistico, frenetico e caotico di Caracas sarebbe arrivato più tardi. Nel 1921 la capitale del Venezuela era ancora una città di medie dimensioni, adagiata pigramente tra il suo fiume e la corona della montagna sullo sfondo. Rosa scelse di stare con la figlia perché con lei si sentiva più a suo agio che con la nuora ma abitavano nello stesso stabile e farsi compagnia non era difficile. Cominciava una nuova vita. La scoperta del petrolio, qualche anno prima, aveva catalizzato l’attenzione di moltissima gente su quell’angolo di mondo e, anche se il boom demografico non sarebbe cominciato che nel secondo dopoguerra, già in città si respirava un certo fervore, si parlava del futuro, si progettava un Paese nuovo. Fu così facile a Vittorio trovare lavoro presso un’azienda edile italiana. Insieme a lui c’era Giacomo, il cognato, un ragazzone tranquillo, di poche parole, ma che sapeva il fatto suo. Avevano ripreso il mestiere di falegname perché il bisogno del manufatti  di legno era davvero alto. E Dora? All’inizio si trovò disorientata, persa, senza punti di riferimento. Detestava passare le sue giornate in casa a pulire, preparare i pasti, accudire il figlio. Le sue occupazioni si incrociavano con quelle di Rosa, che con le mani in mano non ci sapeva proprio stare. Con la madre non di rado si scontrava perché i suoi interessi erano diversi e spesso incompresi dalla madre: “Non hai pace! Vuoi calmarti?!” le diceva. Ma lei era smaniosa di fare, di riprendere i suoi studi di botanica, di uscire di casa, di lavorare e rendersi indipendente economicamente. Odiava chiedere soldi al marito e dovergliene render conto. Riuscì nel suo intento. Trovò persone con i suoi interessi e proprietari di ville –i borghesi rampanti che si stavano arricchendo col petrolio- che esigevano bei giardini intorno alle loro dimore. Cominciò a studiare e a lavorare, occupandosi di semi, piante, fiori tropicali. Attiva e propositiva com’era, non tardò a farsi apprezzare e ben volere da tutti. Dora gettava ponti al suo prossimo con la stessa facilità con cui faceva crescere i suoi germogli. Purché al suo intuito sicuro apparissero persone degne d’attenzione e non gusci vuoti d’arroganza e superficialità, lei era disponibile a entrare nel loro mondo, farsi carico dei loro problemi e ricercarne insieme la soluzione. Stimolava le confidenze perché era attenta, sensibile e discreta. La sua innata eleganza di modi e di vestiario, pur nella modestia dello status socio-economico di appartenenza, attraeva le giovani signore della middle class venezuelana, che vedevano in lei, piuttosto che una giardiniera, l’italiana da imitare nelle acconciature e nella valorizzazione di un abito semplice attraverso fresche corolle da appuntare alla scollatura, al cappellino o al risvolto della giacca. Insomma, Dora non tardò a farsi un nome e poté, nel giro di cinque-sei anni, mettere su un negozio proprio e diventare la fioraia, la botanica più famosa di tutta Caracas. Vittorio arrancava, al suo fianco, e non riusciva  a progredire con la stessa vivacità della giovane  moglie. In breve, lei cominciò a guadagnare di più e soprattutto ad evolversi, divenendo sempre più raffinata. Così, quel timido ritrovarsi, che pure s’era verificato all’indomani dell’arrivo in America; quella fiammella che aveva ripreso vigore scaldando i loro sensi e il loro letto, lentamente si affievolì e rimase una brace in attesa. “Ti perdo, forse ti ho già perso!” si disperava Vittorio. “Ma come!? Dovresti essere contento che stiamo bene, che nostro figlio potrà studiare, che forse potremo ritornare in Italia ricchi un giorno…” “Sento che non va bene, che non siamo più in sintonia, che non ce la facciamo ad essere una coppia normale” Dora taceva ma capiva che lui aveva ragione.

Rosa vedeva tutto, ne soffriva e pur cercando di rispettare il noto proverbio tra moglie e marito non mettere il dito, cercava discretamente di intervenire presso la figlia per scongiurare il peggio. “Stai facendo fallire il tuo matrimonio, Dora…” “Perché, mamma, che faccio di male?” “Niente, figlia mia, sei una brava ragazza, ma sei troppo avanti per lui, lo umili col tuo successo, lo intimidisci, lo fai entrare in crisi…” “Non posso rinunciare al mio lavoro, a quello che mi appassiona, mamma…” Hai ragione, ti sono nel cuore, ma devi pensare anche a lui, al suo carattere, alle sue debolezze. Aiutalo…” Ma Dora non sapeva come fare. Aveva cercato di coinvolgerlo nel suo mondo, ma lui sembrava un pesce fuor d’acqua alle cene a cui la invitavano. D’altra parte, lui non le offriva nulla della sua vita extra familiare: era troppo introverso, e insofferente per destare simpatie e tessere amicizie. Si allontanarono sempre di più: l’unico legame forte era Luigino e per lui si sforzavano di andare d’accordo ma non si sfioravano nemmeno, come se i loro corpi, pur giovani e affamati d’amore, fossero tra loro incompatibili. Dora si svegliava con l’amaro in bocca e un peso sul cuore: alternava periodi di nervosismo in cui le pareva di essere la corda tesa di un violino ad altri, in cui prevaleva una languidezza, una spossatezza che le ricordavano la resa dei fiori d’ibiskus all’ineluttabilità della brevissima vita, un giorno, due al massimo. Il suo cuore pareva seguire quest’altalena: a volte le schizzava nel petto, le martellava come un tamburo; altre, pareva non esserci, il suo battito era appena percepibile: allora Dora si cercava il polso per accertarsi d’essere ancora viva. Il medico le diagnosticò un’aritmia e le raccomandò, oltre una medicina, la tranquillità. Facile a dirsi. Si sentiva frustrata e colpevole di non saper tenere il timone del suo matrimonio. Ebbe l’impressione che Vittorio fosse approdato altrove, a un nuovo amore, o almeno a una relazione appagante. Lo vedeva sereno, molto più di lei. Né l’uno né l’altra avevano la forza di provare a smuovere il macigno che li divideva. Rosa si era accorta di tutto ma taceva. Al bene del bambino andava sacrificata la verità dei sentimenti. Quando andava in camera degli sposi a rifare il letto che Dora aveva lasciato sfatto nella fretta di preparare Luigino per la scuola e farlo uscire con lei, si accorgeva che quei due nemmeno si sfioravano. Il peso dei loro corpi sul materasso era visibile a destra e sinistra, non nel centro, e i guanciali erano distanti. Le spuntavano le lacrime ma le ricacciava; non poteva parlarne con nessuno, perché nessuno poteva porvi rimedio. Era la sua croce, che si trascinava per tutto il giorno, tra panni da lavare, spesa da fare, pasti da preparare, casa da pulire. Soltanto quando saliva le scale per andare a stendere la biancheria sulla terrazza del palazzo e finalmente posava la cesta portata in equilibrio sulla testa, alla moda del suo paese,  l’Avila all’orizzonte, il cielo terso come  a Rivarolo, lo scintillio in lontananza del Guaire scioglievano il grumo di dolore che la soffocava, la rasserenavano e la spingevano a una preghiera accorata. Poi, la spesa al mercato le riempiva gli occhi e il cuore di colori: la frutta esotica sfoggiava gialli, rossi e arancioni a profusione e invitava all’assaggio. Avrebbe voluto essere pittrice e saper riportare sulla tela la sensazione di leggerezza che quell’impatto cromatico le regalava. E così, malgrado la nostalgia che mordeva, la solitudine sentimentale, i problemi della figlia, riempiva la borsa d’allegria, faceva il pieno di pazienza e di buoni sentimenti e ritornava a casa a fare il suo.

Los Roques, in quei primi giorni di gennaio del 1930, sembrava aspettarli con le sue spiagge bianche d’origine corallina, l’acqua di cristallo, le scogliere, i laghi, e la cintura di isole e isolotti che si specchiavano in un mare calmo come una laguna. Avevano fatto un lungo viaggio su una corriera ansimante che da un momento all’altro pareva gettare la spugna, poi avevano preso un grosso peschereccio che portava a pagamento gli aspiranti turisti in quel paradiso dimenticato dagli uomini ma non da Dio. Luigi, ormai un adolescente alto, magro e con la peluria sul mento, attaccato al parapetto, non si saziava di guardare. Quella gita ottenuta per i suoi successi scolastici la desiderava da tempo, da quando l’insegnante di geografia ne aveva parlato come di un luogo magico, che i venezuelani non consideravano abbastanza. Era riuscito a convincere i genitori ad andarci, appena trascorso Capodanno, prima che finissero le vacanze di Natale. Del resto era proprio quello il periodo migliore, dopo il periodo piovoso tra ottobre e dicembre e con i venti alisei più vivaci e pronti a soffiare nelle vele. Ora, che poteva gustarsi tutta la gamma di sfumature di quell’acqua, dal verde-azzurro al blu intenso; che poteva assistere e partecipare alle battute di pesca che rovesciavano nel peschereccio reti grondanti, piene di sogliole, boniti, caritè, snappers ma anche mante, barracuda, aragoste e stelle marine; ora che finalmente gli sembrava di vedere i suoi genitori sorridenti e distesi; si sentì felice e leggero, dimentico delle difficoltà patite da bambino immigrato per inserirsi in un ambiente sconosciuto, imparare una nuova lingua e abituarsi a sapori, odori, gusti diversi da quelli del paese in cui era nato. Ormai aveva vissuto più in Venezuela che in Italia e, benché l’italiano, nella sua variante dialettale piemontese, fosse parlato in casa e in tanti altri luoghi in cui gli capitava d’andare, considerava lo spagnolo la su prima lingua e si sentiva  a tutti gli effetti venezuelano e sud-americano. Voleva studiare, laurearsi, contribuire alla crescita di quello stato nuovo e turbolento che di energie fresche, fisiche e intellettuali, aveva tanto bisogno. Voleva diventare ingegnere e sapeva che con la sua caparbietà ci sarebbe riuscito.

Dora guardava quell’acqua limpida desiderando con tutte le sue forze che potesse diventare lo specchio della sua anima finalmente libera da ombre, inquietudini e compromessi. Si sentiva ancora giovane, sebbene avesse oltrepassato la soglia dei quarant’anni e soltanto le assidue cure alla sua persona e le frequenti tinture d’henné alla sua capigliatura, contribuissero a mantenerle un aspetto piacevole, curato e sensuale. Negli ultimi anni si era concessa una relazione pienamente appagante sul piano fisico ma emotivamente ardua, perché, per nessun motivo al mondo avrebbe compromesso la fragile serenità della sua vita familiare, dopo che Vittorio era ritornato all’ovile, le aveva chiesto perdono della sua trasgressione e l’aveva implorata di non lasciarlo mai; d’altra parte, però, lei non poteva più rinunciare a Pedro, alla sua cieca e sorda passione per lui. Pedro le aveva fatto conoscere la forza immane dell’amore, la sua energia totalizzante e irrinunciabile. Lui l’aveva fatta sentire intimamente e profondamente donna, aveva esplorato tutte le sorgenti della sua femminilità e le aveva regalato –le regalava- un piacere che con Vittorio non aveva mai sperimentato o intuito. I loro incontri la lasciavano stupita, interdetta, per qualche momento completamente felice e ancora più ebbra di lui. Aveva provato a lasciarlo, ignorandolo per mesi, quando si presentava nel suo negozio-serra a proporle nuovi semi, inedite ibridazioni, radici di piante esotiche dalle virtù miracolose. Ma era capitolata presto: era bastato uno sguardo più intenso del solito, una sfumatura più ambrata della sua meravigliosa carnagione olivastra, un guizzo più deciso della sua frangia allontanata con un cenno del capo dagli occhi, per toglierle ogni resistenza. Si erano ri-presi là, per terra, nel calore stordente delle piante, nell’ora di chiusura del negozio, tra palme, espleletia, orchidee e  keferstenia e per Dora era stato un approdo. A casa l’aspettava Vittorio e lei si era sentita sprofondare dalla vergogna e dai sensi di colpa ma aveva capito che a suo marito il sesso era sempre interessato poco e che ora quasi poteva farne a meno, in una sorta di regressione all’infanzia. Quel che le chiedeva era protezione, sicurezza, affetto, non passione. Così si era adattata al compromesso, a cui il suo super-ego ogni tanto tentava di ribellarsi, imponendole fedeltà e castità. Ma quasi sempre la spuntavano i sentimenti e il desiderio. Il risultato erano sogni affannati, risvegli inquieti e un cuore sempre più ballerino. Per questo, nella quiete di Los Roques, a contatto con la sua miracolosa bellezza, pregava di poter risolvere il nodo gordiano della sua vita e in una sorta di languida tenerezza, da cui era estranea qualsiasi pulsione erotica, si sentiva vicina a Vittorio e lontana anni luce da Pedro.

Dall’Europa, giungevano notizie preoccupanti: stava prendendo il potere un fanatico di nome Hitler che predicava teorie aberranti e antisemite; si ispirava a Mussolini che intanto in Italia consolidava il suo potere. Povera Italia, povera Europa commentavano tutti, in casa di Dora. Luigi era all’ultimo anno delle scuole superiori e presto avrebbe cominciato l’università. Caracas continuava a essere una piccola città ma proiettata verso un futuro che tutti si aspettavano migliore del presente, specialmente gli abitanti delle baracche periferiche, che si addossavano ai palazzi degli operai e dei piccolo-borghesi come alle ville dei ricchi, quasi a chiedere almeno protezione, se non era possibile giustizia sociale. Rosa era invecchiata ma reggeva; i suoi figli si potevano dire benestanti, specialmente Dora; i suoi nipoti erano cresciuti e ormai adulti. Lei sentiva di aver ormai concluso la sua parentesi vitale ma non se ne rammaricava. Aveva solo espresso il desiderio, se fosse stato possibile, di finire i suoi giorni in Italia ed essere seppellita nel cimitero di Rivarolo, accanto al suo Luigi. Gli aerei facevano la spola con l’Italia e i soldi per fortuna non mancavano. E infatti accadde proprio così, ma molto più tardi di quanto Rosa prevedesse: solo nel 1955, dopo un’assenza di trentaquattro anni, rimise piede a Rivarolo Canavese. I paesani l’accolsero con grande affetto e commozione e lei ebbe la gioia di poter abitare nuovamente nella casa di famiglia, ricomprata dai figli, a sua insaputa, dagli antichi acquirenti del 1921. Chissà se fu quella gioia o l’emozione di poter pregare sulla tomba di Luigi; oppure se fu la resa di un corpo che aveva fino all’ultima fibra lottato per il ritorno: fatto sta che dopo un settimana dal suo rientro, Dora la trovò senza vita, una mattina, nel suo letto. Aveva un’espressione serena sul volto, doveva essere passata dal sonno alla morte senza accorgersene. La morte d’una persona giusta fu il primo pensiero di Dora ma questo non le impedì di sprofondare ugualmente nel buco nero del dolore.

 Il destino le riservò, sei anni dopo, la stessa sorte della madre: non nel suo letto, ma nel luogo privilegiato della sua vita. Passandola a salutare, come di consueto, prima di recarsi nel suo studio d’ingegnere fra i più apprezzati del Venezuela, Luigi la trovò per terra, all’ingresso della serra. Aveva in mano una rosa rossa, che andava ad aggiungere ad altre dieci del mazzo sul bancone, pronto per la confezione. Era bella come sempre: l’orchidea appuntata sul risvolto della giacca appariva fresca come appena colta.

   Maria Gisella Catuogno

  

  



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