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Dorinda Di Prossimo - La notte la casa l'assenza

Da Ellisse

Dorinda Di Prossimo - La notte la casa l'assenza - Edizioni Forme Libere 2015Dorinda Di Prossimo - La notte la casa l'assenza

Di Dorinda Di Prossimo se ne è già parlato QUI, con un certo interesse, soprattutto per la sua scrittura e la sua capacità di inserire il proprio mondo in una griglia coerente, perlustrabile, senza estremi cedimenti lirici anche quando la materia è sentimentale (in senso lato) o dolorosa, e con una notevole attitudine, che avevo definito "inventariale", a dare una identità alle cose. In quella occasione (a proposito di Quaderni millimetrati) avevo parlato di uno spazio, che deve essere abitato o "familiarizzato" per poter essere in qualche modo  sostenibile, ma di come non fosse possibile farlo, anche poeticamente, senza una drammatica coscienza del tempo che in  quello spazio scorre.

Già il titolo, in questo libro/canzoniere di circa 140 poesie, è una perfetta sintesi e riproposizione di quanto avevo constatato. La casa  e la notte sono luogo e tempo in cui l'assenza, qualcosa che solitamente percepiamo come immoto, si manifesta, sia essa di un amore o del padre più di una volta evocato. Ritorna un luogo per eccellenza, non solo del quotidiano ma anche della rivisitazione del ricordo, del rimpianto, della rimessa in discussione: la casa, un guscio aperto verso un esterno relativo e limitato, forse ininfluente, aperto attraverso una finestra o un balcone su un paesaggio circoscritto, aperto attraverso rumori o la presenza di una "vicina" citata più volte. Luogo del vivere più distillato, nel quale più si assommano, anche nella loro identità di nomi, le cose, materiali o immateriali. E spazio, materialmente circoscritto ma mentalmente infinito, riecheggiante e marino, nel quale ritrovare le parole, anzi ricercarle accuratamente. In questo spazio in cui scorre gran parte della vita, la notte rappresenta la parte oscura che tuttavia serve drammaticamente ad illuminare certi eventi, certe esperienze, vittorie, perdite, fallimenti, magari in quell'ora antelucana che Ingmar Bergman chiamava l'ora dei lupi, quella in cui siamo soli, si pensa, si fanno bilanci, ed è molto difficile darsela a bere. Naturalmente anche la notte è un luogo, un "topos", in cui non tutto avviene, fortunatamente, ma la notte "serve" - scrive Di Prossimo "se non ci fosse la notte, m'inventerei / un ventre abissale". Così pure l'assenza non è mai totale, è paradossalmente una presenza che popola la casa, assegna alle cose una carica affettiva. E', in altre parole, una evocazione, come dice Di Prossimo in una della poesie, che avviene all'interno - ed è una delle caratteristiche - di una quotidianità serrata (o appunto casalinga), direi pure tradizionale, elemento che si riverbera anche, in molti punti, sullo stile, sull'apparenza di una poetica dell'oggetto illuminata da una luce emotiva (e vale ricordare che, come sostiene Remo Bodei, gli oggetti caricati emotivamente diventano "cose", cessano di essere antitetici al soggetto - o antagonisti -, anzi lo assumono in sé).

L'enucleazione della cose, dei fatti, dei ricordi, delle assenze, con quel che di "nostos" racchiudono, non può che essere affidato al linguaggio. Se in qualche caso può apparire "ricercato", voluto, a volte spinto da una specie d'ansia di trovare l'inconsueto o lo scarto semantico, nella generalità dei testi è esatto e coerente, iconico e immaginifico, spesso affidato, specie nei testi più brevi, a una sua semplice funzione poetica (una musica interna) più che alla prosodia o alla versificazione, qui non importanti poiché si tratta di una lirica "modernizzata", sciolta e libera, libera anche di frangere il verso in sintagmi anche minuti, fino alla particella, libera viceversa di sfociare in accenti leopardiani  ("quando le ombre non tremano / e il primitivo figlio a casa torna / e del pane fa gioia") o di diversi altri nomi della tradizione italiana, o di virare senza timidezza su toni elegiaci. Tanto più che sono i modi e gli stili, qui, di una lirica comunque sempre sostenuta da una notevole varietà linguistica (e da una sensibilità, qui vale la pena dirlo, tutta femminile) che ne smaltisce opportunamente il tratto elegiaco/nostalgico/malinconico. La sostanza è il raggrumarsi di un pensiero intorno a qualcosa di granitico, come avviene in una perla. E questo non solo perché in certi testi è possibile contare svariati nomi di oggetti, di cose concrete e immanenti, come se tutte fossero sfiorate da un inquieto sguardo circolare sull'ambiente. Del resto, se almeno in poesia il tempo è in fondo ciclicità, delle notti, delle albe, dei giorni, nella ciclicità le cose famigliari che vi si oppongono sono, nello sguardo e nella memoria, come isole nella corrente. C'è da dire anche che in questa poesia le cose o i fatti non funzionano tanto come epifanie o correlativi oggettivi, ma piuttosto come switchers, come interruttori della mente verso il vissuto di cui sono o sono state testimoni e verso la sua riscrittura con i "ci si potrebbe" e con i  "facciamo finta che", il suo emendamento, come quando lo sguardo attraversa qualcosa che stiamo osservando e ci si ritrova assorti  a dare ragione in qualche modo dell'assenza (della "morbidezza della solitudine"), a riavvolgerne la storia. L'assenza poi non può non essere contemporaneamente attesa cioè ancora tempo che scorre ("La casa, malinconicamente ripulita. / Come aspettando il dottore, / il dolore, o, una manciata di miracoli"), perfino attesa di qualcosa che sappiamo non si realizzerà mai, anche allorquando "si fa chiaro il fosso / del vivere lontana, non solo da te, ma, / dalle circostanze d’ogni felicità". Quindi, ancora, spazio/tempo come indivisibile elemento necessario, "femminile" ed emotivo, tangibile (quindi reale?) ed insieme astratto, ma comunque paradossalmente "posseduto" e incasellato forse in uno dei quaderni "millimetrati" di Dorinda, e agevole come può esserlo un palcoscenico calcato in numerose repliche. (g.c.)


Certe volte, a volte, mi s’impiglia addosso
l’orlo del vicino, la fame della sua
tasca scucita, la mossa sbieca che fa sul
marciapiede, per vendermi fiori, un teatrino
di braccialetti sui cartoni. Mi s’impiglia
addosso il nome che invento dei suoi…
occhi bruni, d’una madre che gli affolla
i capelli, d’un padre che abbevera cammelli.
E mi respiro lo stagionato dolore. Il
torbido d’un pane mal diviso. Dell’acqua
che spreco per assolvermi il viso.

***

Così che, passeggiando quasi insieme
curva appena io a cercare il sasso nascosto
dalle stagioni, trovammo una piegata
tempesta, una foglia interrotta dall’autunno
e quelle raccolte di penombra, care al tuo
pensare la vita, forti nel mio scompigliare
i destini, e ornammo scalzi ogni lontananza.
Da quel preciso istante ogni silenzio si disegnò
destino. E, i libri sembrarono morire, le righe
nei quaderni quotidiani, i legni custoditi per
gli inverni. Passeggiando in quell’insieme dei
quasi e dei pertanto, arrivò tutta la rotondità
perduta, la cabala sbiadita delle tenerezze. Il
colore pastello delle persiane estive. La pace
che tagliava la strada, la morbidezza delle
ciliegie, l'infinita finitura del bilico d'un bacio.
***
Prima ti parlo del tempo, dei tetti
che piangono i rumori del freddo, il tanfo delle
foglie ai bordi dei tombini. Poi, comincio ad
evocarti, da qui, dai numeri scritti a matita sul
muro, da questo bisogno di mettere e cancellare,
di riempire e svuotare ogni cosa che sembri un
sedile, un recipiente muto d’attesa. Mi invento
un ritornare d’ouverture, oppure un viaggio che
mi apra ad un vuoto consistente, umanamente
inimmaginabile. I cani persino hanno imparato
il passo sciatto del padrone. Li vedo ad ogni
ombra in quel poco d’aria rossastra che copre la
sera. – Il giornalaio è morto – ricorda la voce d’un
vecchio che scalda il muretto sul mare. Un muro
ad altezza di ginocchia, per uomini lasciati soli,
per due piedi che inghiottono sassi a centimetri.
– Abusi di solitudine – direbbe la parsimonia di
quel che resta. Anche la ragazza d’una discoteca,
è morta. Mora, con diversi spartiti d’aghi sul
braccio, un reggiseno con verdi foglioline da
tè. – Mica era brutta – dice sempre il vecchio
che compra titoli di giornali. – Forse era ancora
piccolina, portava merletti alle mutande, e due
braccialettini, trucchi rossi ai polsi bisognosi –.
***
Se potessi, lo riprenderei al volo quel tempo
in mano d’opera di scrupolosa giovinezza.
Come romanzo che indulge sulle numerabili
gioie, le spaurite semplicità dei dolori.
Se potessi, di nuovo, metterei i nomi ai
pulcini, alle cucce dei cani, ai nascondigli per
gli specchietti, i lustrini, i bigliettini. Le labbra
fermerei, dilatate e stupite, sulla memoria dei
baci offerti per imitazione, per sconcertare i
giochi d’odori e di parole, la perfezione del
rimorso, il pube spoglio, prato senza neve.
Se io ritrovassi quelle ottave di sogni e stanchezze
che nella stanza dei fiati, cicatrici sapevano
ricamare, uno spudorato concerto imbastirei,
sonora ouverture di dita sollevate. E, mio fratello,
mia madre che scampano nei cieli, a riavviarmi
le note, un falsetto di quiete, acuto d’amore.
***
Resistono le smorfie nelle pieghe dei vestiti
Conservano. La mappa delle strade,
la soluzione dei nodi, gli irritanti cruciverba.
Tracciano. Il sudore dell’appuntamento
sfiorato e non goduto; la fretta, l'analisi
impaziente. Stropicciano soli, gli abiti
da sballo. Tengono il passo. Confondono
gli odori. È gioco di punti sospesi quella seta coi
fiori delicati. Argomento per ombre. Quando
l’aria asciuga le braccia dimenticate. Affondate.
Quel transito di fuga. Prima o dopo. D'allora. Lì.
***
Riprenditi l’orma, s’io dovessi un poco morire.
I sodalizi sul cuscino. Se. Dovessi quasi
chiudere le ciglia e dire
“Vado a cercarmi un cortile, un treno,
la rosa arruffata e mai trovata”, riprenditi
le chiuse porte, il piombo delle poesie.
D’una piegata, costante solitudine mi perdo.
E. Trovo così sfatto quest'angolo d'esecuzione,
che ogni mappa al balcone, scompare.
Ogni solstizio vista mare. A svista.
***
Volevo che mi facessi una fotografia.
Prima o dopo l’amore. Magari di spalle, verso
la finestra. Il mare che scansa la ferrovia, un
miraggio di barca che consuma l’onda.
Volevo restasse un vapore di contagio.
Di quella faccia, la mia o la tua riflessa
dal lucido legno, accerchiata di gioia.
Calma, la gioia, come a partire senza bagaglio.
Un’orbita che orbita dentro un pistillo. E che
nessuno riconosce. Se non te. Se non me.
Se non il cappio di luna. Che intanto.
***
Cerco di non ascoltarla più la musica.
Cerco di risolvere anima e orecchio
solfeggiando appena qualche innocuo
ricordo. Qualche finestrella che s'apparecchia
verso due nuvole a picco. Verso l’est, o,
l’asterisco d’orizzonte. Puntuale, prevedibile.
Utile al sol fuoco di stagione. Cerco di non
inciamparmi di sillabe quando mi torni in
nome, nella moscacieca d’ogni carezza che
vuole rincasare. Il cuore cerco di salvarmi. Le
pieghe del fegato, il palpitare dei polmoni.
La brace mi fo bastare. L'ago che pettina
qualche orlo rimasto. L’intesa tra la sedia e
il condolio delle chiavi. A pomeriggio. A
notte. Chiuso il cancello del mare. Chiuso.
I pesci a scrivere il buio. Mentre scompari.
E. Pure l’immaginario. Scompare.
***
Quel che resta sono i margini.
Il corpo laterale delle esclamazioni. La direzione,
debole e poco mondana, della volontà del
pianto, della certa spettralità della luce che
cade, ogni sera, cade e si ferma dietro i vasi,
lì sul balcone. Senza portarsi al mare, al lago
chiaro della pelle dei sassi. Sono le umane
disperazioni quelle che mi saltano in braccio e
l’impossibilità di numerarle, a te, che mi leggi
come una nota senza conseguenza. E, di rado,
grato, infili il mio nome njell'argenteria dei
doni. Quel che resta, resta e sta. Affidata al mio
salotto buono, alla doppia serratura che fuori
lascia, fuori, il fuori scena. Le parolette senza
copione, la luce bianca tesa delle onorevoli
intenzioni. Ora esco e fazzoletti porto con me.
Tre. Uno per salutare il mare, come i bambini
quando chiamano i giochi e riconoscono la
leggerezza che sporge, la vulcanica distrazione
della gioia. L’altro per asciugare qualche scrupolo
di lacrima /per le assenze, per il tepore d’ogni
lontananza/. E uno, l’ultimo, per incartare le
spudoratezze, l’acino che sempre preme. E,
muoversi. Muoversi e partire. Scum parire.
***
Ecco il mare dopo un gomito di treno,
ventosa ocarina tra capelli.
L’aria di casa si ricombina.
Quinte, mezze tende, creste ai vetri.
Cane da punta la malinconia.
Suono di stagione.
Ci metto una pazienza da segretaria
a saperti tenere come federa all’aria.


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