Dorindo Di Prossimo: E. Dita. Le mie.

Da Narcyso

Come ho già avuto occasione di dire, i libri usciti per questa piccola collana, curata con estrema cura, presentano una omogeneità stilistica davvero rara. È da aggiungere a questa koinè anche la poesia di Giampaolo De Pietro, uscita per altre edizioni  – qui De Pietro è impegnato in veste di curatore – .

Non per ultimo, riveste il suo peso  la sensibilità pittorica di Francesco Balsamo, declinata in sottotesto sinestetico, avvertibile nella funzione sensoriale dell’oggetto libro.

I libri di incertieditori, dunque, sembrano essere accomunati da un’attenzione visiva rispetto al bianco, all’inquadratura, ai colori sfumati; questi delimitano i margini entro cui la parola si costruisce – qui esplicitamente, nel caso di Dorinda Di Prossimo, un quaderno millimetrato -.

” La carta a millimetri di un quaderno invita chi scrive alla precisione, a non sprecare spazi: ma è anche un richiamo umile e concreto a un’espressione concentrata e pulita, senza le sbavature e gli eccessi a cui può indurre lo spazio bianco di un foglio immacolato,  (Alida Airaghi nella postfazione).

Le caratteristiche portanti di questa che mi ostino a considerare come una piccola scuola, possono rimandare ad esperienze riconosciute come quelle di Vivian Lamarque o Livia Candiani: leggerezza, malinconia, una delicata tendenza al neologismo, utilizzo di una punteggiatura/inquadratura che corteggia la composizione; ma soprattutto un esistenzialismo abbassato di tono, “postbellico”, ben cosciente di vivere in una decadenza ormai irremovibile; racconto di sè, attraverso un diario minimo in contesti di interni. Non per ultimo, animismo e favola incline a una delicata forma di animismo.

***

Nel caso di Dorinda Di Prossimo, la parola si avventura nel racconto di se stessa, dei suoi debiti biografici, delle sue stimmate. Sono poesie scritte tra una sigaretta e un’altra, il fruscio di un vecchio vestito, la contemplazione di un gioiello, una foto, o forse della propria immagine allo specchio.

Poesie che ricordano, nello sfondo di un tempo leggermente annebbiato – l’ultima parte del giorno -  e in cui emerge la figura di una madre che fa fatica a partorire ma che ha capito che “costa cara la resurrezione”.

Per una simile materia, la forma del diario a bruciapelo, della traccia lasciata nel sottobosco della pelle, è, certo, la più immediata e necessaria perchè permette una intimità alla scrittura, un bastare a se stessa, senza che la bestia della letteratura possa tessere i suoi drammi. Questo bastare ha a che fare col delicato equilibrio dello stare entro i confini di un proprio sentire concentrato, senza perdere quella precisione che i millimetri di una pagina ci impongono.

Racconto, per nulla pacificato, di una figlia impertinente che si è ostinata ad abitare il mondo strappando la maschera  del suo teatro, fino a riconoscere nel massimo dei peccati – la morte inflitta – il sottotesto di ogni possibile dichiarazione, di ogni possibile domanda.

Sebastiano Aglieco

***

I vetri dell’inverno ho spazzato

il bastimento dei rami

i millimetri dei calendari

p. 9

***

M’aggiusto coserelle senza ambiguità,

al mattino. Due righe di luce rubate ai vetri,

quattro versi di pensieri (un viaggio, la cura

d’una fuga), la polpa del caffè. Mi faccio chiara,

senza il lusso della speranzella. Pitagorica,

direi. Una moltiplicazione di molliche di buona

educazione (parlati piano, Dorì, lavati gli occhi

di ieri, metti la linda parananza). Rinvio

il sommario del freddo, la tenacia d’una felicità.

Alla poetica sgrammaticatura, m’affido,

alla colletta della nicotina; bionda, sulla ritmica

unghia, andantina.

p. 13

***

Sai, l’ultima parte del giorno, trascrivo. Ora ti so

in piccola cornice. Era una compagnia

disordinata il tuo sorriso, madre. Luogo minimo.

Transitorio. Ho difficoltà di mani a trascinarti

qui. Vive così poco l’erba a casa mia. I petali

restano nel bicchiere, la direzione degli occhi,

sui rovi cade. Qui ti vorrei, nome e indirizzo

precisi, equivoci a scansare. Diventa la morte

uno scompartimento d’addii. Una frolla

abitudine senza vita. E del tuo collo diritto ho

lunghevoli attese. Del tuo dolore in scena.

Sul divano, io. Te. Le spalle tagliate. Restando

p 27

***

Ti è toccata a destino, padre, una figlia dispara

d’occhi, nel fuori quadro, pungolante

e disarmonica. T’è toccato vederla senza

preghiera invecchiare. Si potrebbe intitolare

“Figlia con padre, o l’ora che torna preziosa”

nel quadro che si muove dalla cucina

al corridoio. La figlia che frutta non si fa

sbucciare, il padre che taglia il pane, dice -

Fiori ho comprato per la tomba – invisibile

invenzione d’un sospiro. Oggi sono un’ora

ferma, materia fredda per serpenti. Càpito a

sproposito, infestiva, nel calendario dei rossi

giorni. Eppure. La parola eppure mi sembra

un’ àncora per mozzi in risalita. Solo che non so

se fuori dell’acqua trovo una profondità che mi

risucchia. Coltiva “erba” una mia amica. E mi fa

pensare ad una panchina. Dopo spettacolo. Il

mio sedere incollato al freddo, gli applausi

imbarazzanti. Uno spinello che passeggiava tra

le dita e le labbra stanche. Mi chiedevo se il tal

uomo m’amasse. E sentivo i sandali stretti.

In scena, invece, non fumavo. Tanto era facile

dare di verso altrui un gesto rallentato. Mentre

scrivo ho, accanto alla tastiera, gli orecchini

d’osso, rossi. C’è una curva di foglia argentata.

Il pacchetto delle sigarette. Un accendino come

l’occhio azzurro che si sfascia lontano.

“Lo spleen de Paris” che Baudelaire mi tocca, direi

con quotidiana gioia d’un messale. E. dita.

Le mie. Piccolo armistizio d’un congedo.

p. 47

***

… Eccoli, i picciòli delle foglie, i cerchi

del polline del fiore, il passo del verso del

dolore, le gioie a soqquadro tra i ventricoli e

l’ombelico. Sillabiamo nei follicoli i ricordi,

dentro le unghie; ritroviamoci nelle viscere. Il

silenzio è rispetto, il vin santo dell’esclazione.

Specchiamoci dentro di esso, senza timore.

Così, quando arrivano i figli del dolore, dentro le

bare, dentro le fusa della falsa guerra, stolto

sentiamo l’applauso, quel batter di mani stonato.

La morte è morte, uno spiazzo di sale, cenere

sui capelli disossati. Portiamole rispetto. Ché i

nomi diventano lievi, le madri, ghiaia d’agonia.

p. 55


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