Magazine Politica

Dossier de l'Espresso sullo "storytelling" di Renzi: cosa ha detto, cosa ha fatto (4° e ultima parte)

Creato il 04 novembre 2015 da Tafanus

Renzi-cavallo-raiSpending review: almeno 20 miliardi. No, arriveremo a 15. Macché, taglieremo 10 miliardi, ma anche no. Forse solo 5 miliardi
Il dibattito tutto italiano sulla spending review si è trasformato in un surreale balletto di cifre. E l'ultima giravolta, per ora, è quella della legge di stabilità 2016 che mette nero su bianco tagli di spesa nel complesso non superiori a 7 miliardi per il prossimo anno. Sulle cifre, in verità, ancora si discute, visto che modi, tempi e valore dei tagli sono oggetto di negoziato all'interno del governo e con le varie lobby interessate. Di certo, i numeri di questi giorni sono lontanissimi dalle promesse di Matteo Renzi, che dodici mesi fa dichiarava di puntare a una spending review da 20 miliardi, con l'obiettivo «di investire sui settori strategici dell'istruzione e della ricerca senza aumentare le tasse». A un anno di distanza, il governo finanzia spese supplementari e investimenti aumentando il deficit. Dei tagli promessi restano le briciole. E non è solo una questione di numeri. Il grosso degli interventi andrà a colpire i bilanci delle regioni, per 1,8 miliardi, e il fondo sanitario, mentre restano marginali i risparmi ottenuti con l'eliminazione di sprechi e duplicazioni nella gestione dei ministeri e degli enti pubblici. La logica degli interventi non sembra molto lontana dai famigerati tagli lineari dei governi di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti.
In una recente intervista ("Sole 24Ore" del 20 ottobre) il ministro Pier Carlo Padoan ha spiegato che per intervenire sulle singole voci di spesa bisogna elaborare nuovi criteri di funzionamento della pubblica amministrazione. Sui tempi di questa "elaborazione" il ministro non si è però espresso. Par di capire che non saranno brevi. Così come procede a rilento la macchina delle privatizzazioni. Anche in questo caso le promesse di Renzi si sono sgonfiate strada facendo. Mentre, uno dopo l'altro, hanno gettato la spugna i consulenti chiamati a la grana dei tagli. L'ultimo in ordine di tempo è il professore bocconiano Roberto Perotti. Prima di lui Carlo Cottarelli.
Nei piani originari del governo, quelli esposti nel Documento di economia e finanza (Def) del 2014, la vendita di beni pubblici avrebbe dovuto fruttare un incasso attorno «a 0,7 punti percentuali di Pil all'anno dal 2014 e per i tre anni successivi». Come dire che i proventi alla voce privatizzazioni avrebbero dovuto superare i 10 miliardi l'anno. A dire il vero, già nell'aggiornamento del Def 2015, un documento di poche settimane fa, le previsioni erano state ridimensionate a un più realistico 0,4 per cento (6 miliardi di euro) per quest'anno per poi passare allo 0,5 per cento nel 2016 e nel 2017.
L'obiettivo del 2015 (quello corretto al ribasso) è stato quasi raggiunto grazie alla vendita del 40 per cento delle Poste e al collocamento (a febbraio) di un pacchetto del 5 per cento dell'Enel per un incasso complessivo di circa 5,5 miliardi. Nel 2016 il governo vorrebbe portare in Borsa le Ferrovie dello Stato. L'operazione richiede tempi lunghi e non sarà facile rispettare la scadenza. Nel frattempo il treno delle privatizzazioni continua a viaggiare in ritardo.
Giustizia e lotta alla corruzione - Tweet, 20 novembre 2014
Questo svriveva Renzi, all'indomani dell'annullamento delle condanne nel processo Eternit. Ma per la verità, giusto sulla prescrizione, il programma del governo è al palo: il ddl che allunga la scadenza dei processi per alcuni reati corruttivi e rimodula la sospensione dei termini per le condanne non definitive, approvato alla Camera dopo 11 mesi di liti, da aprile è fermo al Senato (una seduta al mese, in commissione). Ma Renzi ha sostanzialmente condotto in porto gran parte degli annunci: anche se in alcuni casi alla "promessa mantenuta" corrisponde più un bel titolo che una sostanza altrettanto robusta. O almeno così lamentano i magistrati, che parlano di riforme «timide», «disorganiche», «deludenti». In ogni caso, dopo la enunciazione nell'estate 2014 del pacchetto di 7 provvedimenti per "rivoluzionare" la giustizia, Renzi è partito giusto con un paio di novità indigeste ai giudici. La prima è la riforma della responsabilità civile dei magistrati, che è divenuta più stringente eliminando il filtro di ammissibilità (con la vecchia legge Vassalli, in 27 anni, erano stati ammessi solo 46 ricorsi). La seconda è la riduzione delle ferie per i magistrati, da 45 a 30 giorni: ma la norma si presta a interpretazioni e di fatto viene aggirata.
Quanto ai processi civili, sparita dai radar la grande riforma complessiva, si è agito invece sul fronte dello snellimento. Le cause pendenti sono scese sotto i 5 milioni: in parte con l'introduzione dell'obbligatorietà del processo telematico (però in molti tribunali si procede tutt'ora per cartaceo), in parte grazie al decreto sull'arretrato civile, che ha semplificato alcune procedure. «Il calo è sensibile», ma «nessun trionfalismo è autorizzato», ha detto ora il Guardasigilli Orlando all'Anm. L'asticella fissata da Renzi è alta: «Dimezzare entro #millegiorni arretrato del civile e garantire processi in primo grado in un anno», aveva twittato il 27 agosto 2014. In materia penale, oltre ad autoriciclaggio e reati ambientali, a maggio è arrivata in porto la legge anti-corruzione: reintroduce il falso in bilancio (depenalizzato da Berlusconi); dà più poteri all'Anac di Cantone; aumenta le pene per i principali reati contro la P.a., in modo tale che, spiegò in video lo stesso Renzi, «adesso anche se patteggi, un po' di carcere te lo fai comunque». È in itinere la riforma del processo penale, da poco approvata alla Camera: il punto più contestato è la delega per riscrivere la normativa sulla pubblicabilità delle intercettazioni, il ritorno in auge del "no al bavaglio" fa ipotizzare un futuro accidentato. Sospesa nello spazio riservato alle calende greche è invece la riforma del Csm, punto sul quale i magistrati sono sensibilissimi.
Diritti - Assemblea del Pd, 18 luglio 2015
Con questo annuncio, Renzi ha convinto il sottosegretario Scalfarotto a interrompere lo sciopero della fame intrapreso per protestare contro la mancata approvazione del ddl Cirinnà. In realtà, l'affermazione del premier è solo la penultima di una serie: delle unioni civili Renzi parla sin dall'inizio del suo governo. E solo a metà ottobre il disegno di legge che istituisce e regola le unioni omosessuali (compresa la reversibilità della pensione e l'adozione interna alla coppia) ha messo piede per la prima volta in aula, al Senato: non sarà discusso prima di dicembre, anzi è probabile che slitti al 2016. La cautela è d'obbligo, dopo quasi un biennio di slittamenti al suono di «si farà in primavera», «entro l'estate», «a settembre», «subito dopo la legge elettorale», «subito prima delle regionali». In generale, il premier sul fronte dei diritti civili non ha messo il turbo: poche promesse, magari non scontate, ma da portare avanti senza fretta.
Anche per lo ius soli, la prima approvazione da parte della Camera risale a pochi giorni fa: si apre alla cittadinanza per i figli degli immigrati a condizione che frequentino almeno cinque anni di scuola o che uno dei due genitori abbia un permesso di soggiorno di lunga durata (per i nati in Italia). Ma il ddl deve ancora passare al Senato.
Più rapido, anche perché legato alla politica di deflazione del carico sui tribunali, è stato il sì alla legge sul divorzio breve, arrivato in aprile tra i mugugni dell'Ncd: in assenza di figli minori o portatori di handicap, riduce da tre anni a sei mesi il tempo di attesa per dirsi addio, senza bisogno di metter piede in tribunale (se si ricorre al giudice i mesi diventano 12). Ma il pacchetto Renzi in sostanza finisce qui. Il premier non ha preso impegni formali, per dire, nemmeno sulla legge contro l'omofobia. Il provvedimento, approvato alla Camera nell'estate 2013, giace al Senato del tutto intoccato dal giugno 2014. «Giornata mondiale contro omofobia. C'è ancora molto da fare, anche in Italia», twittava Renzi il 17 maggio 2014. Il 17 maggio 2015, neanche il cinguettio.
Rai e nomine - Tweet, 18 gennaio: "Fuori i partiti dalla RAI"
La governance della Tv pubblica dev'essere riformulata sul modello Bbc (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l'Amministratore Delegato). L'obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica». Recitava così il punto numero 17 del programma dei cento punti presentato da Renzi alla stazione Leopolda nel 2011. Preistoria. Il Renzi di governo ha nominato in ogni cda un amico politico, anzi, un fiorentino. Il Giglio magico: Alberto Bianchi (Enel), Fabrizio Landi (Finmeccanica), Federico Lovadina (Ferrovie)... Tutti purissima razza Leopolda. Alla vice-presidenza dell'Eni si è addirittura trasferito, direttamente dal governo senza tappe intermedie, il vice-ministro degli Esteri Lapo Pistelli.
La Rai non fa eccezione. Nel cda di viale Mazzini c'è il gigliato Guelfo Guelfi che inonda i giornali di articoli e tracima di vanità finalmente soddisfatta. Direttore Generale, in attesa che sia votata la riforma che lo trasformerà in amministratore delegato, è Antonio Campo Dall'Orto. Presenza fissa ai raduni renziani, la nomina è avvenuta dopo un passaggio a Palazzo Chigi, annunciato con comunicato ufficioso alle agenzie. A cose fatte è arrivata la rivendicazione di Renzi: «Il cda della Rai non poteva che essere espressione dei gruppi parlamentari presenti in Vigilanza, perché naturalmente si fanno gli accordi sulle rispettive appartenenze. Ciascuno può rimpiangere i cda che presentavano grandi nomi della società civile: la scommessa è ora dimostrare che anche la politica può essere civile».
La lottizzazione è di nuovo una virtù.

(Fine)


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog