Dossier: Elezioni in Tunisia, il punto sugli altri paesi della ‘Primavera Araba’

Creato il 23 ottobre 2011 da Candidonews @Candidonews

Dopo la caduta di Ben Alì, Mubarak e Gheddafi, si punta allo Yemen ed alla Siria

Oggi potrebbe iniziare  davvero la Primavera Araba, o meglio avviarsi al consolidamento , dopo le ‘rivoluzioni’ che hanno defenestrato i dittatori dei paesi arabi mediterranei. Si vota infatti nelle libere elezioni tunisine. Le prime dalla caduta del dittatore Ben Alì. Sembrano essere favoriti i partiti islamici filoturchi. Il Premier turco Erdogan quindi potrebbe essere il nuovo ‘regista’ della politica araba. Israele non sarà di certo felice di uno sbocco simile.

Da Linkiesta:

Elezioni vecchie e nuove:

Un contesto che, in particolare, dà rilievo a queste elezioni. Anche dal punto di vista storico: la Tunisia, dal 1956, anno in cui la Francia concesse l’indipendenza totale, ha sempre avuto elezioni controllate. La maggior parte dei partiti d’opposizione era bandita. Quelli ammessi alla corsa erano, in generale, partiti del regime mascherati, per mantenere una parvenza democratica. Nel corso delle elezioni non mancavano episodi di violenza e intimidazione per orientare il voto. In ogni caso, il ministro dell’interno aveva il compito della conta dei risultati, lasciando agli avversari solo un pugno di seggi in parlamento.

Ora le cose sono diverse. L’assemblea dovrà redigere una nuova costituzione, sostituendo quella del 1956, decidendo anche le future elezioni. Ci sarà un presidente, che avrà carica più onoraria che effettiva. La durata del mandato non è specificata, ma gli dodici più importanti partiti si sono accordati perché non duri più di un anno.

I Partiti:

Gli occhi sono puntati soprattutto su al-Nahda (Il ‘partito della Rinascita), il partito di ispirazione islamica di Rachid Ghannouchi. Fortemente legato al Partito Giustizia e Sviluppo turco di Tayyip Erdogan, al-Nahda è probabilmente il favorito di queste elezioni, potendo contare sia sulla notorietà derivante ai suoi dirigenti dalla lunga opposizione al regime di Ben Alì, sia su una base organizzativa più strutturata di quella delle oltre 1.500 liste presentate.

Nella circoscrizione estera dell’Italia, al-Nahda presenta come capolista Osama al-Saghir. 28 anni, in Italia dall’età di 11 anni in quanto rifugiato a causa della militanza politica del padre con al-Nahda, già presidente dell’associazione dei Giovani Musulmani Italiani, giornalista e collaboratore di Al Jazeera, è un’espressione plastica della nuova Tunisia.

Gli elettori:

Si deciderà il futuro della Tunisia, ma anche della Primavera araba: le elezioni potrebbero costituire un modello e un precedente importante. Va ricordato, però, che dei sette milioni di tunisini aventi diritto di voto, si sono registrati solo poco più della metà. Un fenomeno prevedibile, secondo molti, in un paese che aveva da tempo perso fiducia e interesse nei meccanismi democratici.

EGITTO

Se la Tunisia sembra avviata verso una fase costituente, in Egitto la ‘rivoluzione’ rischia di subire un rallentamento, se non addirittura un arresto. La giunta militare che guida il Paese dalla cacciata di Mubarak non intende cedere il potere in breve tempo. Pressioni internazionali e tentazioni di ‘regolamenti di conti interni’ stanno posticipando le votazioni per le elezioni presidenziali. Si pensava dovessero svolgersi in quest’autunno, ora potrebbero slittare addirittura al 2013.

Da Il Post:

nonostante gli ultimi proclami dell’esercito di avviare il trasferimento di poteri alle autorità civili entro sei mesi, i militari non sembrano affatto voler cedere la guida del paese. Anzi, potrebbero conservarla per più tempo del previsto. In settimana, due importanti esponenti del Consiglio supremo delle forze armate egiziano hanno rilasciato interviste che hanno portato nuove preoccupazioni tra gli attivisti della rivoluzione. Uno di loro, il generale Mahmoud Hegazy, ha dichiarato che «l’esercito manterrà il potere fino all’elezione di un nuovo presidente» che però potrebbe avvenire solamente nel 2013, dopo le consultazioni legislative (previste per il 28 novembre, ma che formeranno una camera dai poteri limitati), l’elezione dell’assemblea costituente e la ratifica di una nuova costituzione.

Nei mesi successivi alla caduta di Mubarak, la giunta militare aveva fatto intendere che le elezioni presidenziali si sarebbero svolte nel settembre 2011. In seguito, i militari hanno cambiato idea e hanno deciso di posticiparle, anche su pressioni della comunità internazionale, Stati Uniti in primis, per paura che consultazioni troppo ravvicinate avrebbero favorito i Fratelli musulmani, il partito islamista perseguitato dal regime di Hosni Mubarak.

L’esercito egiziano ha anche continuato ad usare (ed abusare) della legge di emergenza sulla sicurezza, risalente al 1981 e che permette alle forze armate di avere un ampio potere discrezionale:

Una legge che invece viene applicata senza troppe remore dai militari è quella dello stato di emergenza, in vigore dal 1981 dopo l’assassinio dell’ex presidente Anwar al Sadat (Mubarak l’aveva prorogata di altri due anni nel 2010). La legislazione dà ampi poteri alle forze dell’ordine, in questo caso all’esercito, in materia di arresti e detenzione per periodi illimitati e permette il ricorso ai tribunali militari. Le continue perquisizioni nella sede egiziana di Al Jazeera rientrano in questo contesto.

Dopo la rivoluzione del gennaio scorso, l’esercito ha arrestato e processato, spesso sommariamente, migliaia di persone, molte delle quali ritenute colpevoli di aver criticato l’esercito.

LIBIA

Arrivando alla Libia, dopo l’uccisione di Gheddafi il futuro del paese è del tutto incerto. Il figlio dell’ex dittatore libico profetizzava che senza Gheddafi  la Libia sarebbe diventata  “la nuova Somalia”, agitando lo spettro della guerra civile, dei signori della guerra e dell’anarchia politica che da vent’anni regnano nel paese dell’Africa orientale.

Il Post sintetizza in cinque punti le ragioni per cui la Libia non puo stare tranquilla:

1. Il Consiglio Nazionale di Transizione
Finora, il CNT non è stato in grado di superare le divisioni tra i diversi leader locali, mettendoli d’accordo su quale spazio di rappresentanza dare a ogni regione della Libia. Questo vuoto di potere sta ritardando le azioni più concrete per unificare il paese, riportare un’autorità non militare al comando e impedire che i vari gruppi armati acquistino autonomia ancora maggiore.
2. I poteri locali
Dal punto di vista della conduzione della guerra i consigli militari sono stati per larga parte autonomi, e i loro capi rivendicano ora uguale autonomia politica per i prossimi mesi, con dichiarazioni molto critiche nei confronti del CNT. Queste divisioni sono diventate evidenti molto presto.
3. Le armi
In Libia rimangono alcune sacche di resistenza isolate in diverse località, ad esempio intorno alla città di Sebha, nel cuore del deserto libico occidentale. Ma queste ultime resistenze militari non sono un problema serio per la nuova Libia. Il problema, piuttosto, è quello di disarmare e integrare le varie milizie impedendo scontri armati tra le diverse fazioni, molte delle quali hanno avuto modo di armarsi fino ai denti in completa autonomia
4. Le prime elezioni in sessant’anni
La nascita della Libia come stato unitario e moderno risale solo al 1951. Le uniche elezioni multipartitiche si sono tenute nel 1952, dopo che le Nazioni Unite guidarono il processo di unificazione delle tre province della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan. Non sono un precedente benaugurante: accusate di essere manipolate dal governo monarchico con sede a Bengasi, aprirono la strada a disordini che portarono alla messa al bando di tutti i partiti politici nell’arco di poco tempo. La lunga era di Gheddafi che si aprì nel 1969 ha creato il vuoto nell’educazione politica e democratica del paese

YEMEN

Anche nello Yemen la situazione appare esplosiva:

Il 16 ottobre le forze di sicurezza fedeli al presidente Ali Abdullah Saleh hanno sparato sui manifestanti antigovernativi che stavano protestando nelle strade della capitale dello Yemen, Sana’a. Al Jazeera riporta che almeno dodici persone, quattro manifestanti civili e sette militari che appoggiano la rivoluzione, sono stati uccisi. Diverse decine di persone sono rimaste ferite.

Le ultime violenze rendono sempre più difficile trovare una soluzione pacifica alla situazione yemenita. Dopo circa tre mesi in Arabia Saudita, per ricevere cure mediche in seguito a un attentato, il presidente Saleh è tornato nel paese alla fine di settembre. Nell’arco di pochi giorni la situazione, già tesa e insostenibile durante la sua assenza, è peggiorata fino a diventare una vera e propria guerra civile. Saleh, al potere dal 1978, rifiuta di accettare una soluzione negoziata per la crisi. Anche se ha dichiarato più volte di essere disposto a lasciare il potere, ma i suoi annunci sono sempre apparsi poco credibili.

SIRIA

Chiudiamo il Dossier con la Siria, Assad malgrado le proteste rimane in sella. Il popolo protesta, il governo reprime nel sangue.

Da il Post:

In Siria proseguono le manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, presidente dal 2000. La notizia della morte di Muammar Gheddafi è stata accolta con gioia dai manifestanti, che hanno mostrato striscioni di solidarietà e di sostegno al popolo libico durante le proteste che si sono tenute lo scorso venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno in diverse città del paese.
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Nel corso delle ultime settimane c’è stata una novità decisiva: all’interno del movimento di opposizione, anche a causa delle diserzioni nell’esercito, ha cominciato a diventare più diffuso il ricorso a mezzi violenti.

Come si sono svolte le proteste
Per circa sette mesi le manifestazioni di protesta sono rimaste pacifiche, diffuse in molte città del paese ma non nei due centri principali, la capitale Damasco nella Siria meridionale, vicino al confine con il Libano, e Aleppo, che si trova a nord. Decine di migliaia di attivisti sono stati arrestati e incarcerati. A differenza di quanto è successo in altri paesi, gli oppositori non sono riusciti a organizzare una manifestazione permanente come quella di piazza Tahrir al Cairo, dato che tutti i tentativi sono stati dispersi violentemente dalle forze governative.

Dall’inizio delle rivolte sono morte circa 3000 persone, secondo le stime delle Nazioni Unite.
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L’esercito siriano è sempre stato diviso tra diverse fazioni che rispecchiano le divisioni sociali e religiose della Siria: le più fedeli ad Assad, e quelle che molto probabilmente lo saranno in ogni caso, sono quelle che appartengono al gruppo religioso sciita della corrente alauita, lo stesso del presidente.

Le mosse della Comunità internazionale

Mentre l’azione delle Nazioni Unite è stata bloccata dal veto del 4 ottobre, la Lega Araba ha annunciato domenica 16 ottobre che manderà dei suoi rappresentanti a Damasco, che cercheranno di organizzare colloqui tra il governo di Assad e l’opposizione, che in passato ha rifiutato la possibilità di aprire un dialogo, dicendo che la condizione necessaria per terminare le proteste è la fine del regime di Assad.


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