Dossier “UNO BIANCA” III parte e ultima parte

Creato il 04 ottobre 2011 da Yourpluscommunication

Nella storia della banda della Uno bianca, fra il 1992 e il 1994 si entra in una nuova fase o, meglio, due fasi finiscono quasi per sovrapporsi. Dopo l’assalto all’armeria di via Volturo di cui abbiamo parlato nella prima parte, quella che serve anche per cambiare le armi (dopo questo episodio, a sparare non saranno quasi più le armi personali – e regolari – dei banditi, ma le Beretta sottratte dopo il duplice omicidio), si passa alle banche e sono 20 gli istituti di credito rapinati.

In questa fase la banda incasserà più della metà del denaro rubato in tutti gli anni di attività criminale, in totale poco più di 2 miliardi di lire. Ma si ucciderà ancora senza scrupolo. Lo sanno bene i familiari di Carlo Poli, elettrauto di Riale, assassinato il 7 ottobre 1993, di Ubaldo Paci, direttore di banca di Pesaro, che muore il 24 maggio 1994, o ancora di Massimiliano Valenti, giovanissimo fattorino portato via da Zola Predosa e freddato in piena campagna il 24 febbraio 1993 perché, dopo una rapina, era poco lontano dal luogo in cui i malviventi avevano effettuato un cambio d’auto rubate.

Ma mentre si susseguono le udienze del processo agli esponenti della “quinta mafia” e mentre fuori si continua a sparare, a un certo punto arriva la svolta nelle indagini. Il 21 marzo 1994, nel corso di una rapina a Cesena, viene per la prima volta registrata da una telecamera a circuito chiuso l’immagine del volto di uno dei banditi. E su quell’immagine indagano due poliziotti di Rimini, Luciano Baglioni e Pietro Costanza, che avevano fatto parte di un pool interforze per individuare i banditi della Uno bianca.

Il pool viene presto sciolto, ma i due poliziotti chiedono al magistrato titolare dell’indagine, il pubblico ministero Daniele Paci, di poter proseguire. Il dottor Paci accetta e così si riparte da zero, si studiano i colpi in banca e si giunge a una prima conclusione. Tutta quella sicurezza dimostrata in azione non che può derivare da una serie di sopralluoghi fatti prima delle rapine.

Così, cercando di capire le mosse future dei banditi, gli investigatori ipotizzano quali saranno gli obiettivi futuri e fanno come i criminali: si appostano e osservano quello che succede, a caccia di un particolare anomalo. Nel corso di uno di questi appostamenti notano una Fiat Tipo sospetta perché ha la targa sporca di fango ed è strano perché in quel periodo non sta piovendo. La seguono e arrivano a Torriana, una frazione di Rimini, dove ci abita uno che somiglia molto al “mascellone”, il tizio con il mento volitivo dell’immagine registrata in banca a Cesena. Scattano i primi accertamenti e si arriva al nome Fabio Savi.

Fabio Savi ha due fratelli poliziotti e si inizia a indagare anche su di loro, li si mette sotto controllo, li si intercetta. Così il 21 novembre 1994 scattano le manette per Roberto Savi, che non è mai in servizio durante gli agguati della Uno Bianca. Il poliziotto sa che ci sono dei colleghi che gli stanno addosso, intuisce che la storia della sua banda sta finendo e il giorno dell’arresto in questura si presenta con 2 pistole che però non usa. Non reagisce quando gli si fanno intorno e ai colleghi si limita a dire: “Potevo farvi saltare in aria tutti quanti”.

Fabio viene catturato due giorni dopo mentre cerca di fuggire verso l’Austria con la compagna Eva Mikula. Non oppone resistenza, pur essendo armato. Sarà arrestato anche il terzo fratello, Alberto Savi, che inizialmente si dichiara estraneo ai fatti e invita il fratello Roberto, se realmente colpevole, a uccidersi. Infine scattano le manette anche per altri tre agenti di polizia: Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

La banda a questo punto è al completo: è composta da 6 persone, di cui 5 sono agenti di polizia in servizio tra Bologna e la Romagna. E la stampa inizia a raccontare la loro storia. In particolare dei fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi, il cui padre – ex repubblichino che s’era dato da fare ai tempi delle persecuzioni ebraiche in Italia – dichiara di possedere una ventina di fucili da caccia per tenere lontani “negri e zingari” e di essere orgoglioso di come i suoi ragazzi sanno sparare. Lo hanno imparato da lui. Ma aggiunge di non aver mai saputo che fossero i banditi della Uno bianca. Dice la verità, si stabilisce in sede giudiziaria, e probabilmente dice la verità anche quando afferma che, se avesse sospettato dell’attività dei figli, li avrebbe ammazzati con le sue mani. Finirà lui però per suicidarsi, ironia della sorte, all’interno di una Uno bianca lasciando una lettera piena di insulti a poliziotti e magistrati.

Carmelo Pecora, per molti anni capo della polizia scientifica di Forlì e oggi scrittore, era in servizio quando un componente, Pietro Gugliotta, della banda venne arrestato.

All’epoca ero un vice ispettore e venni chiamato la sera del 25 novembre 1994 perché – mi dissero – c’era un servizio particolare da svolgere. Così andai in questura. Subito dopo sono arrivate alcune macchine della Criminalpol di Bologna dentro cui c’era una persona che io conoscevo bene, solo che non era un collega come tutti gli altri perché lo vidi ammanettato. Era Pietro Gugliotta. Con lui avevo condiviso alcuni anni a Bologna al reparto celere, lo consideravo un amico, un collega con cui c’era un rapporto affettivo. Mi ricordo che ogni volta che arrivavo a Bologna lui mi abbracciava. Eravamo entrambi siciliani per cui, negli anni, si era creato questo legame e vederlo con le manette ai polsi mi fece molto male. Rimasi allibito all’inizio e poi il peggio per me fu dover prendere le sue impronte digitali. Mi ero sempre chiesto cosa si provasse a farlo a un collega.

Giunti alle 3 del mattino, all’interno dell’ufficio della scientifica c’erano tantissime persone, ma regnava un silenzio assoluto e io cercavo di guardare Pietro negli occhi per tentare di capire com’era stato possibile che si fosse ridotto a commettere tutti i reati che gli venivano contestati. Non sapevo neanche più cosa pensare, come comportarmi, avevo molta rabbia e mi sentivo tradito. Però mi sono limitato ad assumere le sue impronte, a scattagli le foto segnaletiche e subito dopo la Criminalpol lo portò via, nei locali della squadra mobile, per interrogarlo. Da quel giorno non l’ho più rivisto, ma mi è rimasto dentro quel momento, di certo uno dei peggiori della mia carriera di poliziotto.

In ultimo un accenno a un altro pezzo di storia, quello delle donne della banda. Occorre dire che c’è ancora oggi chi non crede fino in fondo alla conclusione della vicenda. Le risultanze giudiziarie, infatti, non hanno dissipato le voci sulla cosiddetta “delatrice”. Innanzitutto, prima di dire chi potrebbe essere, si noti il termine: il delatore è qualcuno che, tradendone la fiducia, denuncia qualcun altro. È un sinonimo di spia. La fantomatica “delatrice” della Uno bianca, colei che ai tempi avrebbe messo sulla pista giusta gli investigatori sarebbe stata una donna. Una donna molto vicina ai Savi che non avrebbe più potuto tenere per sé i fatti di cui era a conoscenza. Di lei, però, mai sarà dimostrata l’esistenza.

Di certo non potrebbe essere Eva Mikula, la “biondina” della banda. Il suo ruolo in questa vicenda ha sempre avuto tratti ambigui. Se le mogli dichiareranno a processo di aver sempre taciuto per paura, di essere state minacciate per anni e di aver temuto per la vita dei figli e per la propria, Eva Mikula, ad arresti avvenuti, inizia a collaborare spuntando protezione, scorta e libertà e finendo poi sui giornali con foto osè. Viene comunque assolta, nonostante si sospettasse un suo ruolo attivo almeno durante gli appostamenti. Il giorno in cui viene dichiarata non colpevole, uscirà dall’aula dichiarando ai giornalisti: “Non vi aspettavate che finisse così, vero?”

Quella che appena letta è la storia della banda della Uno bianca. Una storia che, ufficialmente, è la vicenda di rapinatori che uccisero per denaro e divertimento, per la scarica di adrenalina che il crimine provocava in loro. Insomma, tanto sangue versato per un totale di 2 miliardi e 170 milioni di lire. Eppure, ad arresti effettuati e processi avviati, i famigliari delle vittime hanno subito minacce anonime e pressioni senza che mai si sapesse se fossero opera di mitomani o di qualcuno altro.

Quasi tutti i componenti della banda sono stati condannati all’ergastolo e i fratelli Savi sono ancora in carcere. Pietro Gugliotta, invece, è stato scarcerato nell’agosto 2008 per fine pena. Per gli altri, per i Savi nello specifico, a cicli costanti, si torna a parlare di benefici. Nell’estate 2006, a qualche giorno della promulgazione dell’indulto, Roberto Savi chiese addirittura la grazia senza che nessuno avesse mai davvero creduto in una risposta positiva. Però lo fece. E nell’autunno 2009 suo fratello Fabio ha iniziato uno sciopero della fame chiedendo un trattamento carcerario meno severo a quello a cui è sottoposto. Ogni volta che accade qualcosa del genere, ai familiari delle vittime viene chiesta un’opinione e vengono attaccati perché non vogliono perdonare gli uomini che fecero 24 morti e 102 feriti, quasi che i cattivi fossero loro. Ma di rado si ricorda che quei setti anni di terrore lasciano ancora oggi strascichi.

Strascichi fatti di percentuali di invalidità, di pratiche burocratiche, di cartelle cliniche. E men che meno si ricorda che la sentenza di primo grado ha riconosciuto la responsabilità del ministero degli interni e lo ha condannato lo Stato a pagare un risarcimento alle vittime. Questa parte della sentenza in Cassazione viene cancellata. In termini pratici, questo ha comportato una gestione lunga e complicata perché i risarcimenti non dovessero essere restituiti, dato che il denaro era stato utilizzato per le spese legali e mediche. Infine, c’è la parte di commemorazione, di racconto, di informazione e formazione nelle scuole. Ecco cosa dice in chiusura Rosanna Zecchi:

Sono andate a spesso a parlare nelle scuole e i giovani credevano che gli assassini della Uno bianca appartenessero alle Brigate Rosse. Di conseguenza ho dovuto dire che la realtà era diversa. Tutte le volte che spiego a questi ragazzini che invece erano dei poliziotti, rimangono allibiti. Allora rispondo loro: “Vi dovete fidare della polizia perché, per cinque agenti che si sono comportanti come quei banditi, non si deve fare di tutta l’erba un fascio”. Quando intervengo pubblicamente, continuo a riferirmi a “quei” poliziotti, non all’istituzione, perché sarebbe assurdo fare diversamente. Ma occorre continuare a parlarne perché una storia del genere non si ripeta mai più. Lo spero e continuo a dirlo a tutti. Questa è stata una vicenda ignobile perché coloro che dovevano difendere hanno ucciso.


Antonella Beccaria

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