Rientrare in Italia dopo un anno di aspettativa in piena libertà è stato come rinchiudere un gatto in un appartamento dopo avergli fatto assaporare il giardino e le sue meraviglie: fiori da odorare, erba gatta da assaporare, piante su cui arrrampicarsi, api e uccellini da rincorrere. Come biasimarlo, quindi, se poi quel gatto tenta la fuga? Si può passare dalla gabbia alla libertà con la fluidità di un ruscello, mentre il contrario è assai difficile, se non impossibile.
La mia partenza dalla Cambogia è avvenuta sotto una pioggia monsonica torrenziale: il tuk tuk che mi portava dal mio appartamento all’aeroporto di Phnom Penh era stipato delle mie valigie e dei miei ricordi, che pesavano assai di più delle prime. Mentre il tuk tuk si districava tra motorini, donne col pranzo pronto da vendere sul bilanciere e banchetti di cocchi da bere e durian, tutto il mio anno di aspettativa mi è apparso davanti come un film: dall’Italia alla Cambogia, dalla Cambogia al Vietnam, dal Vietnam alla Cina, dalla Cina alla Thailandia, dalla Thailandia al Myanmar, dal Myanmar alla Thailandia del sud, con un intermezzo in Malesia per poi finire in Oman, intervallato da due tappe in Iran. Roba da scriverci un libro.
La sensazione provata mentre attendevo di adocchiare la mia enorme valigia tra le altre sul rullo dell’aeroporto Milano-Malpensa è stata di felicità e smarrimento. Felicità perchè il desiderio di rivedere le persone a cui volevo bene (e ho ancora una gatta, in fin dei conti) era ormai forte; smarrimento perchè al ritorno da un viaggio del genere, in cui non si torna a casa per dodici mesi, si è appunto smarrito il senso di casa, di appartenenza a un luogo, tutto sembra piatto come un lago, e si è lontani anni luce da ciò che si era prima di partire.
Pensieri in macchina da Milano al mio paesino nella provincia di Torino: “Che grigiume! Ma dov’è il traffico di Phnom Penh? E le mia amate pagode? E poi che freddo che fa! (era fine giugno). Rivoglio gli uomini vestiti in dishdasha e turbante!”.
Pensiero quando la macchina ha fatto il suo ingresso nel paesino: “Ma come ho fatto a vivere qui per così tanti anni?”.
Pensiero quando ho rivisto i miei genitori: “Voglio sentire il profumo sul collo di mamma!” (mentre mi cucina gli ossibuchi).
Pensiero alla vista della mia gatta: “Ma è diventata obesa! Possibile che non siano capaci di non darle da mangiare ogniqualvolta se la trovano urlante tra le gambe?”.
Poi la vita riprende come l’avevi lasciata. Perchè tutto intorno a te è (di solito) come l’avevi lasciato. Sei tu a essere cambiato. Sei tu a non essere più quello di prima. Sei tu il diverso. O ti riadatti e riprendi la vita che avevi prima, o decidi di continuare la strada intrapresa, per tortuosa e incerta che sia. La mia decisione è stata ancora più sofferta dell’anno precedente, più difficile, ma è stata presa seguendo le tre uniche modalità possibili:
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Mai lasciarsi condizionare dal parere altrui
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Mai farsi fermare dalla paura di non farcela
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Fidarsi solo del proprio istinto e ascoltare solo il proprio cuore
Ecco come è andata.
Gli anni di aspettativa dal mio posto di ruolo nella scuola li avevo esauriti. Mi restava la possibilità di chiedere un intero anno sabbatico, che mi sarebbe spettato per legge. Dopo un lungo colloquio con il dirigente della mia scuola, non mi restava che decidere: tornare a fare l’insegnante in Italia o partire. Facile? Tutt’altro: avevo solo un mese per decidere, in quanto la richiesta di un anno sabbatico avrei dovuto depositarla al più tardi il 1 agosto. E avevo un fidanzato a cui rendere conto della mia scelta, nonchè una famiglia che si aspettava che avessi finalmente terminato la mia fase di pazzia – sapete che chi vuole mollare tutto per inseguire un sogno è visto come un pazzo che non sa adattarsi a essere infelice, no? – e fossi tornata nei ranghi.
Per tutto il mese di luglio la mia mente ha ponderato, riflettuto, dato di senno, deciso che sarei rimasta a fare la brava maestra/fidanzata/figlia che gli altri si sarebbero aspettati, deciso che sarei ripartita a settembre perchè in fondo quello era ciò che volevo, cambiato nuovamente idea, con il cuore che batteva come mille cuori che battono.
Una mattina mia madre mi ha detto “Non penserai mica di ripartire e di lasciarmi sola, no?” con la voce da ricatto affettivo più potente che avessi mai sentito. Perchè sapeva benissimo che quello era ciò che volevo, e il suo non era che un ultimo, disperato tentativo di farmi restare.
Intanto ho chiesto al mio fidanzato cosa si aspettava che avrei deciso, e cosa avrebbe voluto. La sua risposta è stata – al solito – concisa: “Io voglio solo che tu scelga quello che ti fa felice”.
Era la sera del 31 e ancora non avevo deciso nulla. Vagavo per la casa come un’anima in pena in attesa di andare alla gogna, ma in questo caso non era solo in ballo la mia vita, bensì la mia felicità. Alle nove di sera ho deciso di aprire il computer e di scrivere la lettera di richiesta dell’anno sabbatico: se avessi deciso di inoltrarla, l’indomai mattina l’avrei avuta pronta sulla mia scrivania. Sudavo mentre la scrivevo, e in quel sudore era racchiusa tutta la mia paura di prendere la decisione sbagliata.
Le ore che precedono una decisione sono per me come le ore antecedenti il sostenimento di un esame: nessuno mi può parlare, sono intrattabile e isterica e non voglio distrazione alcuna: solo il silenzio ha un potere illuminante nelle biforcazioni della vita. Però quella sera avevo fortemente bisogno di parlare, così ho chiamato la mia amica Daniela. La quale mi ha sempre sostenuta nella mia scelta di partire, e questo avrebbe già dovuto darmi la risposta che cercavo: in fase decisionale, ci si fa sempre sostenere da chi sappiamo ci dirà ciò che vogliamo sentirci dire.
In realtà, la mia amica non ha fatto che ascoltare le mie ennesime elucubrazioni, finchè non mi ha posto questa domanda: “Ma se tu restassi, cosa faresti a scuola esattamente? Insegneresti sempre inglese?”. No, non avrei insegnato più la lingua inglese, perchè il mio posto di lingua nella scuola primaria era stato preso da una collega; avrei invece insegnato tutte le altre materie, ciò che avevo sempre temuto perchè proprio non mi piaceva. Non faceva per me. Punto.
Così mi sono vista recarmi a scuola abbardata con guanti e sciarpa e tutto nella nebbia e nel gelo piemontese, a fare riunioni con le colleghe fino a tarda sera per capire i metodi e i programmi di una cosa che non mi entusiasmava affatto. Mi sono immaginata felice? No. Mi sono vista infelice. E triste, per non aver perseverato nel cercare di raggiungere l’obiettivo che mi ero prefissata un anno prima, quando ero partita con una valigia piena di sogni. Un anno era servito per gettare un seme. Ma mi serviva altro tempo per far crescere la pianta. Cosa sarebbe stato di lei, se fossi rimasta? La risposta mi è servita per prendere una decisione.
Per avere un’ulteriore conferma, prima di addormentarmi mi sono affidata a una pratica superstiziosa: aprire la Bibbia a caso (quando si è disperati si fanno gesti inconsueti che non ci appartengono, vero?) e vedere cosa ci fosse scritto. Ecco dove mi è caduto l’occhio: “Chi chiede ottiene, chi cerca trova”. Bene. Poi ho aperto un’altra bibbia, la mia bibbia della viaggiatrice, il libro “Eat Pray Love” di Elizabeth Gilbert, che mi ha accompagnata e sostenuta per un anno intero nel mio peregrinare. L’ho aperta a caso. Ecco dove mi è caduto l’occhio, su ciò che Richard from Texas ha detto a Liz nell’ashram indiano: “Stà attenta a ciò che chiedi a Dio, perchè potresti averlo”. Un caso? Può darsi: però è stato ciò che mi ha dato la spinta finale. Ho spento la luce e ho chiuso gli occhi: è stata la prima notte in cui ho dormito filato fino al mattino, dopo un mese di notti insonni.
Ciò che mi ha fatto finalmente dormire tranquilla è stato l’aver scelto la mia felicità e non quella degli altri. L’aver scelto di continuare a credere in me stessa e in tutto ciò che sono. Scott Ginsberg dice “Freedom means finding a home for all your talents”: Libertà significa trovare una casa per tutti i tuoi talenti. Avevo deciso di continuare a costruire quella casa.
Ora non mi restava che dirlo ai miei genitori: ma questo ve lo racconto un’altra volta.