È interessante affrontare l’argomento partendo dai dati numerici forniti dalla federazione italiana sull’abbandono calcistico e su quanti giocatori tesserati diventeranno professionisti: esattamente
1 su 22.000 tesserati arriva in serie A e 1 su 35.000 in Nazionale. Da una ricerca effettuata dal Centro Studi e pubblicata sulla rivista “Settore Tecnico” (n. 2 Marzo/Aprile 2002), su un campione considerato di 1.101 atleti che negli ultimi 20 anni hanno indossato la maglia azzurra nelle varie rappresentative nazionali:
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Un nazionale su quattro approda senza passare per qualche selezione intermedia.
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Il 39% ha precedenti esperienze in nazionali giovanili (Juniores, under 17, 16,15).
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Il 66% ha esperienze nell’under 21.
Per quanto attiene gli atleti dell’under 21 selezionati nel periodo (355):
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Il 29% approda in nazionale maggiore.
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Il 46,5% ha avuto precedenti esperienze nelle nazionali giovanili.
Degli 869 atleti selezionati nel ventennio, nelle varie rappresentative giovanili:
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Il 7% approda in nazionale.
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Il 19% è riuscito ad approdare all’under 21.
Anche se il dato statistico potrebbe essere sufficientemente confortante, escludendo il top del cacio, rimane da chiedersi tuttavia quale fine facciano i numerosi atleti che, magari dopo diversi provini o sporadiche apparizioni sotto la luce dei riflettori, pur gravitanti per le rappresentative “minori”, potenzialmente destinati ad una buona carriera, spesso non riescono neppure a calcare i campi della serie C. Secondo una ricerca del professor Roberto Bellocci del Comitato Regionale Toscano, si evidenzia che l’età di maggior tesseramento nel calcio e nella fascia 7-8 anni, mentre
il tasso di abbandono è addirittura del 56,52% nei ragazzi di 14 anni e del 61,40% a 16 anni. Secondo Vincenzo Prunelli, psicologo dello Sport, il talento fallisce perchè “I posti sono limitati e molti devono stare fuori, ma è anche vero che troppi sono occupati da non talenti”; inoltre “spesso fallisce, anche se ha tutto per riuscire ed i motivi sono la sua specificità e le particolarità del suo sviluppo ma ancor di più certi i nostri errori, come quello che commettiamo, quando dimentichiamo che è una pura potenzialità da coltivare, capace di straordinari sviluppi, ma anche di fallimenti e disadattamenti altrettanto vistosi” (op. cit., pag. 167). Due aspetti, riteniamo, concorrono a causare questa situazione, accomunati probabilmente dalla esasperata ricerca della qualità e cioè l’eccessiva selezione ed il modo in cui è proposto il calcio moderno. Sicuramente la qualità inizia con un tipo di approccio metodologico appropriato nel rispetto delle varie fasi psicologiche e fisiche dell’età evolutiva. Così, se l’infanzia non deve orientarsi verso la qualità in quanto non cerca e non deve ricercare conoscenze definitive, ma solo capacità di base che possano costituire le fondamenta della casa del bambino, è solo verso i 15 anni che il talento si manifesta in modo ben definito, a volte definitivo. Non a caso, come comunemente si sostiene, al raggiungimento del 16 anno di età coincidente in Italia con la frequentazione alla categoria degli allievi il ragazzo/giocatore è – o meglio dovrebbe essere - un atleta “finito” cioè completo. Certo, la possibilità di migliorarsi deve accompagnare sempre le fasi di crescita del calciatore senza esaurirsi ad una fascia d’età o categoria. Il talento, tuttavia, si è già espresso: si tratta di prestare molta attenzione a consentire che la maggior parte dei talenti possano arrivare senza perdersi per strada ed a garantire il ritorno a quelli che, per varie ragioni, non sono mai arrivati o, pur essendosi affermati per poco, sono ritornati sui loro passi d’origine. Se ci chiediamo poi, quanti talenti perdiamo,la prima causa di questa “comune” sconfitta, va ricercata sui mezzi e sui metodi d’allenamento. È chiaro, però, che dobbiamo distinguere le finalità di un settore giovanile dei professionisti da quello dei dilettanti. Nel primo caso, risulta evidente la necessità di una selezione qualitativa che dovrebbe essere basata su un’organizzazione progettuale e scientifica; successivamente, bisognerebbe essere in grado di gestire i talenti /giovani calciatori in modo integrale, migliorandone tutti gli aspetti della prestazione. Bisognerà inoltre preoccuparsi di quei ragazzi che non riusciranno a continuare su livelli di prestazione elevati, per non influire negativamente sulla loro personalità e, quindi, gestirne il “ritorno”. Nel secondo caso la presenza di talenti deve costituire un esempio per gli altri atleti e l’insegnamento deve necessariamente tendere a questi ultimi per non provocarne l’abbandono e, comunque, per non sopravalutare i più dotati, anche agli occhi degli altri.
Tratto da "Nella valigia dell'allenatore" Ed. Calzetti & Mariucci (2^ edizione)