sabato 15 gennaio 2011
Giungiamo ad Orfalecchio.
Il luogo non è come lo avevamo immaginato.
Il sole filtra tra i rami degli alberi, illuminando questo anfratto di vita perduta.
Facciamo fatica a pensare che sopra di noi correva un ponte sospeso ad oltre venti metri di altezza; non capiamo come poteva esistere una ferrovia che trasportava il legname dal cuore di questa valle sino a Mergozzo. Gli uomini sono in grado di compiere opere incredibili in luoghi assurdi
Troviamo quasi subito la grotta che serviva da mensa per gli operai. Nulla fa intuire quale fosse lo scopo. Occorre sapere per capire.
Ci sediamo e cerchiamo di vedere quale sia il miglior sentiero per la salita verso la val Cavrì.
Ci siamo ora tocca a noi.
Prima di ripartire riprendo il racconto della storia dei boscaioli all’amico impaziente.
Dopo l’abbandono da parte degli alpigiani i boscaioli, recuperati chissà dove, cominciano la perlustrazione della valle per capire da dove partire con l’abbattimento degli alberi. Dopo alcuni giorni di attesa partono per effettuare il lavoro per il quale sono stati ingaggiati. Capiscono immediatamente che non sarà facile, il pendio è ripido e le piante spesso nascondono i raggi del sole. Sono stati pagati in anticipo, non ci sono motivi per rinunciare. I primi alberi abbattuti non creano problemi, ma poco prima del mezzogiorno un boscaiolo viene morso al collo da una vipera caduta da un albero. Viene assistito e portato a valle. Il lavoro continua, deve continuare. Poco dopo la pausa per il pranzo un albero, che non aveva motivo di cadere, si abbatte su due boscaioli; gli altri accorrono per constatare le condizioni: lo spavento si trasforma in smarrimento quando, rimosso l’albero, scoprono che i due sono coperti di vipere nere, quelle dei rododendri.
Non sono stati risparmiati dai morsi.
Li trascinano a fatica poco lontano, decidendo di portarli a valle, insieme alle loro paure ed ai rimorsi per aver accettato quel lavoro.
Quello fu il primo ed ultimo giorno di lavoro per l’abbattimento degli alberi nella valle coperta di vipere che cadono dal cielo.
Trovato una sorta di sentiero, risaliamo lenti e sospettosi il crinale.
La fatica piega le gambe, ma la curiosità di sapere, vedere, conoscere quel luogo ci dona la forza per continuare l’ascesa. Finalmente davanti ai nostri occhi le baite diroccate dell’alpeggio.
Nell’ultimo tratto di salita non abbiamo parlato, i nostri occhi non si sono incrociati, abbiamo preferito camminare pensando a quello che poteva essere.
Gli alberi e gli arbusti si sono divisi i ruderi di quelle povere costruzioni. Dobbiamo cercare un luogo dove montare la piccola tenda che fungerà da rifugio per la notte.
Siamo arrivati dove volevamo. Tutto intorno il nulla.
Non riesco a comprendere il perché di quella vita di fatica, sudore e povertà, passata a caricare un alpeggio in una montagna cruda come nessun’altra.
Il sole si sta spegnendo oltre le cime della Valgrande, che ora ci appare selvaggia come mai o forse no. Il Pedum sopra di noi è un padrone silenzioso, in lontananza i corni di Nibbio appaiono più frastagliati che mai e le gole dell’Arca si colorano di riflessi rossastri.
Abbiamo camminato per ore alla ricerca di un luogo che forse non è mai esistito.
Davanti al miglior tramonto della nostra vita su un pensiero siamo d’accordo: alcuni luoghi non bisogna raggiungerli, bisogna solo avere coscienza che esistano.
Fabio Casalini
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