Quando torno a Roma non piove. La luce è già tramontata, i neon illuminano la stazione Tiburtina e sembrano occhi aperti e tristi sulla notte che avanza. Prendo l’uscita dal lato di largo Camesena, attacco gli auricolari al cellulare per sentire la radio e in radio passano Il debole fra i due. C’è un punto appena fuori dalla stazione in cui si vedono le cime dei pini e gli incroci dei binari, le reti metalliche dei lavori in corso e i cartelloni pubblicitari che svettano sui palazzi. In quel punto sento l’aria che mi attraversa e mi placa, e mi riporta a casa. Allora armeggio nella borsa, prendo il lettore o il telefono, ci metto qualche secondo a districare i fili delle cuffie e poi confido nella casualità: non è mai successo che partisse la canzone sbagliata.
Non piove, nonostante le previsioni del tempo. Mi chiedo quando mi capiterà di percorrere di nuovo la stessa strada, probabilmente mai e mi gela il cuore. C’è freddo ma non piove, con una mano trascino la valigia, con l’altra tengo i manici della borsa, chissà quanti sono i posti in cui non sono stata pensando che avrei avuto tempo.
(Sulla navetta verso l’aeroporto ho tenuto in braccio una bambina, aveva gli occhi celesti, un ciuccio viola, una sciarpa colorata, si chiamava Lucia. La madre mi ha chiesto di tenerla un momento e per un momento ho sperato che non tornasse a prenderla. Le ho sorriso, le ho accarezzato un braccio, l’ho protetta da una brusca frenata e Lucia solo guardava sua madre, ricambiata, salvata per sempre.)
Apro le finestre, cambio il filtro alla brocca dell’acqua, mi siedo, le lenti nuove mi hanno fatto venire il mal di testa, le scarpe nuove mi hanno storpiato il passo, bisogna adattarsi, è una questione muscolare, oculare, plantare, è una questione di sopravvivenza. E quando ti sei adattato, quando ti sei fatto venire le abitudini sulla pelle, grosse come vesciche, quando ti sei deformato il corpo per stare più comodo, allora te ne vai, ti levi la carne di dosso, spingi più forte come il contorsionista contro le pareti di una scatola.
(Adesso comincia la conta al rovescio, la sottrazione. L’insieme infinito dei numeri reali, i Musei Capitolini, la mano nella Bocca della verità. Adesso comincia il lungo addio di Lucia, dura quattordici giorni, avviene in solitudine, si chiude come un riccio davanti al pericolo. Per riprendere i vizi, ho cronometrato, servono diciassette minuti. E il ritmo riprende, riprende la contrazione-l’espansione della normalità.)
Un altro caffè, ho mal di testa, mi sono messa a letto, tuona.