Dove riposano gli angeli – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Dove riposano gli angeli

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Questo racconto è per
Philip K. Dick, 1928 – 1982

http://www.lulu.com/spotlight/iannozzi

Ingollò l’ultimo sorso di birra: era ubriaco, completamente andato. Traballò sbattendo il boccale vuoto sul bancone, cadde quasi in ginocchio fra l’indifferenza totale degli ultimi avventori, si trascinò lontano ma lentamente per respirare una boccata d’aria fresca.
Una volta che fu all’aria aperta, bestemmiò a squarciagola. E il suo grido belluino si perse nel vuoto della notte. Le stele brillavano in cielo, ma non una era per lui.
Un camionista lo avvicinò: era il classico, pancia gonfia e occhi cisposi, la tipica faccia che si fa presto a dire quella d’uno stronzo.
“Amico, ce l’hai una cicca?”
Larry lo guardò storto, distrattamente, poi sbottò: “Cazzo vuoi?”
Prima che avesse tempo di rendersene conto, quello gli aveva rifilato un pugno nello stomaco. Larry si scoprì in ginocchio a reggersi il dolore al di sotto dello sterno: rimise anche l’anima, ma non servì a farlo stare meglio. La testa gli pulsava d’un dolore sordo: un’aureola di piombo lo teneva ben radicato nell’inferno che lui stesso aveva partecipato a creare a suo solo uso e consumo. Non sarebbero bastati mille pugni a fargli vomitare via per sempre il marcio che era diventato. I giorni felici non li ricordava se non come orribili spettri: l’alcool non riusciva ad anestetizzarli.
Quando fu di nuovo in piedi, barcollante, si voltò giusto il tempo d’un momento per vedere se c’era ancora il tizio che l’aveva costretto a baciare l’asfalto, ma quello era scomparso: i suoi occhi obnubilati solo incontrarono una stanca luce al neon, quella del bar. Si disse che non ne valeva la pena e si portò via lungo la strada. Una puttana lo chiamò tesoro; lui non le rivolse una sola parola e nemmeno uno sguardo; però lo sapeva che era una puttana. Non aveva bisogno di saper altro.

Quando al mattino si svegliò l’aureola di piombo non era affatto scomparsa, era soltanto più pesante: giorno dopo giorno acquistava peso, e Larry aveva finito col farci l’abitudine. Si mise a sedere sul letto, diede una rapida spazzolata con gli occhi annebbiati alla stanza, trasse fuori un cavernoso rutto, e si rilasciò cadere pesantemente sul materasso portando un gran scompiglio tra le cimici che gli tenevano compagnia.
Una volta un vecchio amico gli aveva detto che la vita è una sorpresa galleggiante e che l’importante è rimanere a galla: detto da lui, a ripensarci adesso, dopo che di acqua ne era passata tanta sotto i ponti, Larry provò un senso di ironico fastidio. Dirty Pig – tutti lo chiamavano così – era morto sulla tazza del cesso che era ancora giovane e probabilmente vergine: soffriva di stitichezza e sganciare uno stronzo per lui equivaleva a farsi una sudata immane, qualcosa come fare venti flessioni su un braccio solo. Era morto sganciando uno stronzo enorme che aveva otturato il cesso, mentre la sacca dell’aneurisma gli esplodeva nelle budella. Nel giro di venti minuti era morto. L’avevano trovato i suoi vecchi ancora seduto sulla tazza del cesso con gli occhi puntati nel vuoto. Quando glielo raccontarono scoppiò in una risata pensando a uno scherzo di cattivo gusto. Al funerale non tirò fuori una lacrima: faceva un caldo bestiale e la sua unica preoccupazione era quella di sciogliersi la cravatta dal collo. Non ricordava quale fosse il nome di battesimo di Dirty Pig, o forse non l’aveva mai saputo; però sapeva com’era morto, in un modo di merda.
La prima ragazza che s’era fatto gli attaccò qualcosa di simile allo scolo: Larry si ritrovò con l’uccello gonfio e dolorante per un mese intero. Fu così che perse la verginità, maturando l’idea che il grande sogno americano una grande cazzata, o più semplicemente un profilattico rotto venduto per buono.

Prese a ciondolare per casa che era già giorno fatto e strafatto: la bocca incollata alla bottiglia, e il televisore acceso: un predicatore raccontava di Gesù, in una televendita uno vendeva coltelli che prometteva affilati e di più, ed ancora il solito reportage sul Vietnam, le ultime dall’Irak, una retrospettiva sulla famiglia Kennedy, insomma robaccia così. Larry si fermò su un canale che proponeva la faccia ottusa d’un tizio che pareva proprio quella dello scemo del villaggio: il programma era Sick Sad World. Annoiato, con la sensazione che doveva averlo già conosciuto tanto tempo fa, lasciò che quel tizio raccontasse la sua storia: “Sono uscito per andare a caccia. Imbracciato il fucile, mi vedevo già sui giornali come il più crudele, come il migliore, insomma denunciato come minimo e preso d’assalto dagli strali della CNN e anche da quelli del WWW. Mi sono intrufolato tra gli invitati e individuata la preda, ho preso la mira e senza esitazione alcuna ho premuto il grilletto: la pallottola s’è dipartita dalla canna, ha attraversato la torta nuziale facendo saltare in aria i due sposini di zucchero, poi è uscita ed è andata a piantarsi proprio in mezzo alla fronte di Barbie. Che non ha fatto una piega. Soltanto m’ha guardato storto, quasi volesse fulminarmi, poi è tornata a nascondersi fra la folla. Capite anche voi che ‘sto fatto m’ha lasciato non poco perplesso e che per tutto il giorno ho avuto più d’un pensiero a riguardo. Alla sera, il crepuscolo s’è tinto di sangue, mi sento le sirene della polizia in lontananza, avverto il sapore della morte consumata; non posso fare a meno di tornare sui miei passi, per capire, per vedere. Barbie giace in una pozza di sangue, il cervello gl’è schizzato via come quello di Kennedy, e una donna glielo raccoglie in mano cercando malamente di ricomporlo; copiose lacrime le lavano via il mascara, lasciandole sulle gote lunghe impronte nere come graffi del diavolo. Chiedo ai presenti: no, niente, non un lamento dalla bocca di Barbie, molto semplicemente è caduta per non rialzarsi mai più. E’ forse questo un caso di colpo mortale in ritardo? Tutti voi siete morti e io soltanto sono vivo, e io sognerò anche per voi un’altra identità che con le prime luci dell’alba si spegnerà.”

* * *

Ad essere sincero non ho idea da dove iniziare questo racconto, forse dovrei risalire tanto tanto indietro, ma temo sarebbe in ogni caso inutile, quindi mi limiterò a dire degli ultimi anni, quelli che mi hanno ridotto… Me ne stavo accucciato – sì, si può dire così – in un angolo a tracannare una Devil’s Kiss: fuori era l’estate e le risate delle ragazze rinfrescavano l’aria. Io, invece, me ne stavo in solitudine, godendo di quelle risate. Ero vergine al tempo, in tutti sensi. Cazzo di confessione, c’è di che ridere a crepapalle. Ad ogni modo, non è che fossi per la castità, anzi tutt’altro: ce l’avevo sempre duro e solo la timidezza – se di timidezza si trattava – m’aveva trattenuto dal saltare addosso alla prima sbarbina. In fin dei conti sarebbe stato meglio, e quasi sicuramente avrei avuto meno noie; e oggi la mia vita sarebbe diversa, forse col culo rotto e non più vergine, e senza questa cazzo d’aureola di piombo. Dirty Pig aveva da poco tirato le cuoia ed io ero giovane e la morte lontana; ammetto però che la fine di Pig non fu delle più divertenti, fu grottesca. A pensarci adesso a Dirty Pig e al suo stronzo, be’, non posso non provare un senso di ironico quanto grottesco fastidio, almeno questo. Rimanere a galla: Dirty non c’era riuscito – forse il tipo più sfigato che abbia conosciuto dopo di me. Però a Dirty la morte prematura gl’ha risparmiato tante umiliazioni, mentre io me le sono dovute prendere tutte. Dicevo che le risate delle ragazze rinfrescavano l’aria, ma fu un errore uscire dal mio angolo per guardarle. Bob, il gestore del locale, un tipo in carne con una faccia da bulldog, mi fissava in cagnesco anche se i soldi per la birra ce li avevo: semplicemente gli stavo sul cazzo, ma l’antipatia era reciproca. Fu forse propria questa a indurmi a scollare le chiappe da quel diavolo d’un bar. Tre, una bionda, una bruna, l’altra rossa: me le sarei fatte tutte e tre, però quelle ridevano, troppo sicure perché uno timido come me potesse avvicinarle e attaccare bottone e poi sbottonare le loro camicette debolmente sudate. Mi portai la mano destra al collo nel tentativo di sciogliere un invisibile nodo: provavo la stessa uguale preoccupazione che m’aveva preso davanti alla cassa da morto di Pig. Lo sentivo bello duro sotto i pantaloni, peccato che la mia lingua fosse moscia e ruvida come una tavola di tenero legno marcio. Quella coi capelli rossi forse mi parlò, forse mi disse che ero carino o qualcosa del genere. Io rimasi semplicemente come uno stupido a fissarla senza nulla dire; ed allora lei prese a ridere di me. Vidi rosso: vergogna e timidezza e livida rabbia impotente, in pratica un vero disastro. Abbassai il capo e mi portai lontano.
Mentre attraversavo le vie, incontrai Daryl: aveva la fama d’essere uno scoppiato e un po’ tutti in città lo evitavano o comunque cercavano di averci a che fare il meno possibile. A Daryl non lo potevi mandare a quel paese né gli potevi mettere sotto al naso un no. Era uno scoppiato, e a quel tempo credevo che gli scoppiati sapessero restare a galla meglio di tutti gli altri, quindi quando mi si parò davanti non potei fare a meno di seguirlo così come m’aveva chiesto. Lo seguii in silenzio come un cane attaccato alle chiappe del padrone.

Mi resi conto di quanto stava effettivamente accadendo – si fa per dire, perché a tutt’oggi ben poco m’è chiaro -, ma solo nel momento del non ritorno. Ero nel mezzo d’una festa, un matrimonio, almeno così sembrava: tutti ridevano, tutti cantavano e pisciavano tra i cespugli. La torta nuziale sarà stata alta almeno quanto Notre Dame e in alto campeggiavano due sposini di zucchero, perfetti come in un fermo immagine stile Dallas. La musica, non ci avevo quasi fatto caso ma c’era: “People do you hear me, just gimme the sign/  It ain’t much I’m asking, if you want the truth/ Here’s to the future for the dreams of youth” (*) La sposa non era delle più giovani: da lontano m’era sembrata una ragazzina. Adesso che la guardavo bene però, adesso che era a un tiro di schioppo dal mio naso, ecco era soltanto una donnetta sulla quarantina i cui occhi dicevano Non chiedo poi molto, ho sofferto abbastanza, non chiedo niente, solo una vita normale. Il marito doveva essere più giovane di lei di almeno una decina d’anni: pensai che se l’era sposata perché gli conveniva, magari lei era ricca o lo sarebbe diventata. In fondo non m’interessava granché sapere.
Daryl mi prese sottobraccio, allontanandomi dalla coppia, mi sussurrò qualcosa in un orecchio, e ci fui dentro fino al collo, irrimediabilmente.

Quando mi svegliai, ero tutto nudo, nudo e sporco. Mi tastai i coglioni: c’era del sangue, viscoso. Il cuore mi perse un colpo. Dov’ero? Abituai gli occhi al buio di quello che doveva essere un boudoir, trovai quattro teste addormentate: una era quella di Daryl – ne ero sicuro -, l’altra d’una ragazza dai capelli rossi – che mi sembrò essere quella della tipa che aveva riso di me -, poi c’era quella dello sposo… e quella della sposa. Mi avvolsi in un lenzuolo legandomelo ai fianchi, inciampai, caddi con la faccia in mezzo ai seni della sposa: era freddo marmo quel petto. Preso dall’orrore invano cercai di cacciar fuori un urlo: non venne. Mi rialzai confuso, arrabbiato, terrorizzato. Scavalcai – non so bene come – quell’intreccio di membra e mi trascinai via. Non c’era più nessuno, il party doveva esser finito da un pezzo: la casa era vuota. Scesi dabbasso tenendomi il lenzuolo ben legato alle reni, rischiando di rompermi l’osso del collo, perché inciampavo a ogni gradino della scala. Finalmente riuscii ad urlare. Il lenzuolo cadde per terra. Non lo raccolsi, né cercai i miei vestiti. Aprii la porta e una volta all’aria aperta presi a correre senza curarmi di capire se fosse notte o giorno.

La incontrai qualche giorno dopo: viva, più che mai viva nel fiore dei suoi quarant’anni. Una visione! Fu un colpo al cuore trovarmela davanti. Lei sembrava dimentica di ogni cosa, solo mi sorrise: per lei ero un estraneo. Evidentemente non ricordava niente e anche se ricordava, faceva finta di non sapere. Una volante della polizia: mi lessero i miei diritti e prima che potessi capire, mi ritrovai ammanettato. Non ci rimasi per molto in gattabuia: mi rilasciarono due giorni dopo spiegandomi che s’era trattato d’un caso… Be’, non mi spiegarono un cazzo, però ero libero: capii soltanto che non ero colpevole e che avevano preso un abbaglio. L’ispettore fu molto reticente: non mi fornì particolari in merito al perché del mio arresto, mi fece le sue scuse stringendomi la mano e mi offrì una sigaretta in segno di pace.

Uscito di prigione, Daryl lo incontrai due giorni dopo, ma la testa aveva già preso su di sé quella pesante aureola di piombo che m’avrebbe tenuto molesta compagnia per il resto della vita. Lo avvicinai, e Daryl, sprezzante, mi mandò subito a farmi fottere. Dalle sue labbra non riuscii a sapere un’acca. Lo cercai ancora, ma Daryl scomparve. Provai a chiedere in giro, alla gente: nessuno ne sapeva niente, per tutti Daryl era come se mai fosse esistito. Cercai la casa dei neosposi: niente di niente, scomparsi nel nulla. Tuttavia ebbi maggior fortuna con la rossa, se così si può dire: le raccontai tutto per filo e per segno. Scoppiò a ridermi in faccia: “Io con te? Io l’avrei fatto proprio con te…?”
“Credo di sì.”
“Non ne sei certo. E fai bene, perché io con te manco morta.”
Buttai via i Durex che tenevo in tasca, una confezione da sei meno uno. L’uccello mi divenne gonfio e arrossato. Per un mese, il mio povero cazzo fu un’appendice schifosa: l’avevo fatto con una che mi diceva che non era vero, e per giunta con un profilattico bucato. O forse avevo scopato in un’orgia con una quarantenne che però non era mai esistita.

Alla fine la trovai la quarantenne, al cimitero sepolta insieme a suo marito più giovane di lei di almeno dieci anni. Chiesi a un becchino delle informazioni: “Una brutta storia: il marito le ha sparato alla testa il giorno stesso del loro matrimonio. Un colpo che le ha trapanato la fronte. Qualcuno, un’amica forse, ha persino tentato di raccattare i brandelli di materia grigia… Sai, come con Kennedy quando l’hanno assassinato. La cosa più strana è che il marito non aveva un pistola, almeno così disse la polizia. Per tutti è stato il marito a spararle. Però c’è qualcuno che insinua che fu la mano del diavolo a mettere il colpo in canna. Sì, qualcuno dice che in mezzo alla folla, tra gli ospiti, c’era il diavolo in persona. Il marito s’è tolto la vita subito dopo. E’ stata la famiglia di lei a decidere che i due coniugi venissero sepolti insieme per l’eternità. Una storia di merda che ci insegna che la verità non galleggia come uno stronzo.”

Gettai un’occhiata alla lapide, all’epitaffio: “Dove riposano gli Angeli”.  E l’aureola di piombo sulla mia testa si fece così tanto pesante che rischiò di seppellirmi lì in quel preciso momento.

Ci volle un mese perché il mio cazzo guarisse. Tornai al cimitero: la tomba non c’era più. E il becchino con cui avevo parlato anche lui scomparso.

Se ci penso adesso, provo pena per me, per me che… ‘Fanculo!

* * *

Larry spense la tv, spense Sick Sad World.
“Ne hai avuto abbastanza?”
Larry si voltò verso la donna: “Sei pesante.”
“Sono nella tua testa. O meglio, sulla tua testa.”
“Sì. Ma perché io?”
“Non c’è un perché. Tu o un altro, non avrebbe fatto differenza. Questa volta è toccato a te sperimentare che la vita è una sorpresa galleggiante e che l’importante è rimanere a galla. Ma la verità non galleggia come uno stronzo dove riposano gli angeli.”
Larry si ritrovò con una pistola in mano: era già carica. Puntò la fredda canna alla tempia: con lo sguardo spazzolò l’ambiente, la sua casa, posò gli occhi sulla bottiglia. “’Fanculo!”, sibilò fra i denti.

Come al solito tutto l’alcool della bottiglia non era servito a niente. Essa era maledettamente pesante. Accese di nuovo la televisione: andava in onda la replica della puntata che aveva già visto di Sick Sad World: lasciò che quel tizio faccia da scemo del villaggio ripetesse per l’ennesima volta la sua storia. Gli puntò contro l’indice a mo’ di pistola e schioccò fra la lingua un sonoro bang. Lo schermo fu invaso da un mare di nevischio. ‘Ho proprio bisogno d’una puttana. Non ho bisogno di altro. Di nient’altro. Di nessun altro. Solo d’una puttana, perché tutti voi siete morti e io soltanto sono vivo’, pensò sorridendo in maniera grottesca, orribilmente pesante. Chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi, lentamente, la fronte.

(*) I Want It All, Queen – The Miracle, 1989
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