Ho trovato una intervista di alcuni mesi fa, al professor Vito Tanzi, di Mola di Bari (per vent'anni, dal 1981 al 2000, è stato direttore del dipartimento di finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, la più alta carica non politica del Fmi; docente che per una vita ha insegnato alla George Washington University e all'American University; sottosegretario all'Economia e alle Finanze chiamato a far parte dal 2001 al 2003 del secondo governo Berlusconi; consulente che ha prestato il proprio ingegno alla Banca mondiale, alle Nazioni Unite, alla Banca centrale europea.) resa per la presentazione del suo libro: Italica.
Il professor Tanzi mette in rilievo come, uno dei problemi strutturali dell'Italia sia stato nei fatti, la piemontesizzazione del paese.
Ecco nello specifico cosa riferisce Tanzi, in un breve estratto, a Il Giornale:
Italica è un'edizione scientifica di Terroni, il best seller del suo conterraneo Pino Aprile?
«No, anche se ne condivido le conclusioni: nell'unificazione il Meridione ci ha rimesso. Per evitare il contenzioso Nord-Sud che s'è trascinato fino ai nostri giorni, sarebbe bastato fare gli Stati Uniti d'Italia anziché il Regno d'Italia. In fin dei conti l'avrebbero preferito anche Cavour, Metternich, Napoleone III e Francesco Ferrara, che era il più grande economista dell'epoca: una federazione dotata di un piccolo governo centrale che si occupasse solo delle relazioni con i Paesi stranieri e di pochissime altre funzioni. Lo Stato centralizzato doveva essere la destinazione finale e non il punto di partenza. Ferrara già in un articolo scritto nel 1850 aveva profetizzato che il Piemonte non sarebbe mai riuscito ad assimilare la Sardegna, così come la Gran Bretagna non era riuscita ad assimilare l'Irlanda».
Il Regno di Sardegna evitò il fallimento trasferendo i suoi debiti all'Italia, cosicché i problemi finanziari dei piemontesi diventarono quelli degli italiani.
«Nel 1861, all'atto dell'unificazione, il 57% o forse il 64% del debito pubblico totale dell'Italia era di origini sabaude, mentre l'incidenza del passivo che derivava dal Regno delle Due Sicilie era insignificante. A differenza dei Savoia, i Borbone avevano l'avversione per i bilanci in rosso e le tasse. Il deficit italiano, oggi stratosferico, è cominciato allora. Dal 1861 al 1896 il Regno d'Italia già creava un milione di debito pubblico al giorno, nelle lire di quel periodo».
Lei scrive che la capitale degli Stati Uniti d'Italia doveva essere fissata a Napoli. Perché?
«Era la città più importante, aveva più del doppio della popolazione di qualsiasi altro centro abitato, veniva considerata la terza capitale d'Europa dopo Parigi e Londra. Disponeva già di tutte le infrastrutture per ospitare un governo centrale. Ora lei pensi invece alle uscite folli sopportate per trasferire la capitale d'Italia prima da Torino a Firenze e poi da Firenze a Roma. Ha idea di quale sia stata la spesa per edificare nella Città eterna il solo ministero delle Finanze? Io ci ho lavorato per due anni, è il palazzo più grande di Roma, dev'essere costato un occhio della testa».
Siamo ancora in tempo per gli Stati Uniti d'Italia oppure il federalismo è solo un'utopia?
«Nei 27 anni in cui ho lavorato al Fmi mi sono occupato di molti Paesi dove vige il federalismo, dalla Russia al Sudafrica, e confesso di non essere mai stato entusiasta di questo assetto politico-istituzionale. Oggi mi rendo conto che, dove c'è un governo centrale inceppato, il federalismo rappresenta l'unica soluzione. A patto che poi le Regioni non trasferiscano i loro debiti allo Stato. Se negli Usa la California va in malora, non la salva nessuno».