Woody Allen è tornato. La sua assenza sia all’ultima edizione del Festival di Cannes sia al Lido ci aveva un po’ inquietato, ma la sua frizzante performance in “Fading Gigolò” dell’amico e collega John Turturro, presentato in anteprima a Toronto (in arrivo da noi la prossima primavera), aveva riportato l’allegria in tutti noi, e oggi siamo elettrizzati all’idea di parlarvi di “Blue Jasmine”. Il cineasta americano, infatti, dopo il leggero e poco convincente “To Rome with Love”, ci regala un film nevrotico e drammatico come da tempo non accadeva.
Jasmine è una donna sofisticata, bella, di gusto e sfacciatamente ricca, per lo meno sino a poco tempo fa, prima di rifugiarsi a San Francisco, nell’appartamentino della sorella, per sfuggire ai ricordi, alle malelingue e ad un passato fatto di tradimenti, frodi fiscali e suicidi. Sempre charmante, ma al verde e, soprattutto, coi nervi a fior di pelle, Jasmine deve trovare un nuovo equilibrio per ripartire, purtroppo però è inquieta e non sa cosa sia lo spirito di adattamento. Non riuscendo a rinunciare ad agio e opulenza, cerca quindi di guadagnarsi da vivere svolgendo un normale lavoro impiegatizio, ma la situazione le crea dei forti mal di testa che sa tamponare solo con litri di Vodka-Martini.
Cate Blanchett, attrice sempre impeccabile, qui è più che mai in stato di grazia e la amiamo sin dalle prime battute: lei che è altissima, algida e dalla chioma dorata, riesce a essere il perfetto alter ego in versione femminile dell’attore e regista. La sua Jasmine riempie lo schermo, ci snerva con le sue nevrosi e quando crolla noi finiamo a terra al suo fianco. Avvolta da un’aura magica (merito della calda fotografia tipica dei film di Allen) ci tiene con sé durante il suo fallimento, passato, presente e futuro.
Anche a questo giro il cineasta newyorkese ci porta lontano dalla sua città e ci parla di umane debolezze, di difficoltà emotive e d’imprese impossibili a causa di abitudini controproducenti e di un inconsapevole spirito di autodistruzione. La rovina di Jasmine sarà provocata proprio da se stessa e dalla costante ripetizione del medesimo errore, e questo è il punto in cui tutti noi ci sentiamo chiamati in causa e giungiamo al vertice della compassione identificandoci con la di lei sofferenza.
Alla fine della proiezione il pubblico, composto da un folto gruppo di estimatori dell’autore, era spaccato in due: soddisfatti e scontenti. Il registro drammatico, ma non traumatico né tragicomico, è stato il punto della discordia. Allen è riuscito, infatti, a trascinarci nel gorgo della sua protagonista e a confezionare una pellicola triste senza farci piangere, ma il cui disagio è arrivato sino a noi, ed è stata proprio questa fastidiosa sensazione ad aver disturbato alcuni e a far esultare altri.
Ammetto di aver amato lo straziante “Crimini e Misfatti” e d’aver dimenticato in un lampo “Match Point” (forse perché il cast non mi aveva per nulla entusiasmata), ma trovo che la scelta della protagonista di “Blue Jasmine” sia stata brillante e i toni usati siano morbidi al punto giusto: in un epoca così nera, narrare storie veritiere con immagini addolcite da una fotografia color miele potrebbe, infatti, risultare più efficace di quanto s’immagini. Quindi promuovo senza indugio il film e spero di rivedere presto su grande schermo New York e Woody Allen, autore che pare avere ancora molto da raccontare