Ci fu un momento nel quale il quotidiano della mia città inaugurò una rubrica. Angolo del degrado si chiamava e piazzavano una foto compiaciuta con una qualche bruttura senza commento, la pantegana che correva sui sacchetti delle “scoasse” in riva, lo scheletro della gondola rovesciato miseramente come un memento mori anticipatore dell’affondamento della serenissima.
Era un miserabile e tossico laboratorio sperimentale che preparava i piccoli miserabili orrori del pensatoio leghista: guardate come ci hanno ridotti, guardate cosa ci hanno fatto, altri da noi. Per abituare le genti del nord al contemplativo rancore nei confronti dell’avvicendamento di colpevoli del degrado sociale: meridionali, albanesi, romeni, la sinistra, i punk, i giovani, gli studenti, le aziende comunali in mano ai comunisti, gli operai che scioperano, le donne che non si accontentano mai, le tasse che le paghiamo solo noi e così via.
Parole d’ordine destinate ad avere successo in un mondo avviato al risentimento globale: ricchi contro diseredati minacciosi, poveri pronti a insidiare rancorosamente privilegi dei più fortunati, uguali in invidiosa competizione contro altri uguali.
E che oggi si moltiplicano perché si moltiplicano oggetti e direzioni della accidiosa e rapita contemplazione del disastro, che è la maniera più comoda e irresponsabile di vivere l’inadeguatezza e l’impotenza che ci coglie davanti a tempi incerti, inquieti e complessi.
Non so perché mi è venuto in mente tutto questo di fronte al cambiamento di opinione e di convinzione, istantaneo come il nescafè, sul caso DSK, un miserabile feuilleton senza vincitori né vinti che ha messo in disordine alcune categorie di preconcetti per fare posto a altri moralismi ancora più rigidi.
Succede a chi resta orfani degli stereotipi (in questo caso quello del potente tracotante e violento e quello della diseredata offesa) di mescolare tutto nella mefitica e frigida marmellata della degenerazione morale, della confusione di valori, della commistione tra potere, consumo coattivo di corpi, passioni, brutture e bellezze in un caos senza speranza.
Si li capisco, ci si affeziona agli archetipi: vittime o carnefici sono rassicuranti, perché confermano i pregiudizi. E se ci tradiscono allora è meglio affogare tutto nello stesso fango, che guardiamo da un asettico davanzale, quello di una nostra supponente e distante superiorità intoccata. Quello è un erotomane, quella è una piccola delinquente, per giunta anche puttana.
“È’ uno schiavo.. mostrami chi non lo è: uno è schiavo della lussuria, uno dell’avidità, uno dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura”.
Un Seneca tremendamente lungimirante ci ricorda che stare alla finestra non ci salva, perché c’è chi è schiavo del pregiudizio e chi dell’ipocrisia. E chi è schiavo, come quei due, lui e lei, della lussuria o della miseria, finisce per essere comunque vittima. Di se stesso e non solo.
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