DUE GIORNI, UNA NOTTE (Jean-Pierre e Luc Dardenne 2014, Belgio)
Voto complessivo: 9
Due giorni, una notte è l'ennesimo dei
fratelli Dardenne che riesce a colpirti allo stomaco. Praticamente perfetto. Ho imparato ad amare questi due registi belgi già molti anni fa, ai tempi de
Il Figlio, con quel loro attore assolutamente formidabile, ormai diventato feticcio, che è
Olivier Gourmet. L'uso del suono ambientale è cruciale, l'uso della cinepresa à la "cinema verité" che segue ogni singolo passo dei protagonisti, sfidando le leggi del cinema classico che eliminano tempi morti dando solo risalto ad azione e dialoghi.
Il cinema dei Dardenne si poteva definire
il cinema dei silenzi.
Non a caso, credo, il titolo
Le Silence de Lorna. Con i Dardenne è tutto un flusso continuo, un piano sequenza angusto
- che può arrivare a durare più di 10 minuti
- col fiato sul collo dei personaggi, che assomiglia alla dura realtà in maniera imbarazzante. Gli spazi, i pensieri, le angosce. Da i tempi de
Il figlio, L'enfant (vincitore a Cannes) e
Il matrimonio di Lorna qualcosa però è cambiato. Qui siamo davanti a un
romanzo di sapore sociale e civile dove la parola diventa centrale e fondamentale, la donna in particolare diventa un totem di giustizia etica e morale.
Sandra, inizialmente col solo aiuto del marito (Fabrizio Rongione), proprio a parole dovrà convincere i suoi colleghi di lavoro a votare contro il suo "licenziamento" e rinunciare ad un bonus di 1000 euro. Una impresa impossibile, se consideriamo che esce da un periodo di profonda
depressione e che questo licenziamento è proprio una conseguenza del bonus. Tutto sembra remarle contro insomma. Ed i colleghi più bastardi le vorranno confermare le sue paranoie andando ad alimentare ancor di più la sua instabilità, fino al punto di farle compiere un gesto disperato, ma non irrecuperabile.
Infatti il film, pur essendo un vortice di sentimenti aspri e opprimenti, porta con sé una svolta ottimistica per il cinema dei Dardenne, anche se fino a un certo punto. E allora viene in mente, in modo vago e, lo ammetto, azzardato, il cinema americano dei
courtyard drama dove c'è una causa civile impossibile riguardante in particolare l'universo femminile depredato, che bene o male verrà vinta.
Marion Cotillard è già una diva del cinema internazionale. Già sfruttata non benissimo da diversi registi solo perché bella. In
The Immigrant - C'era una volta a New York e in questo film il suo status viene quasi annientato, dunque passa in primo piano tutta la sua potenza e bravura. Fragilissima eppur forte, una forza che deve tirare fuori dal nulla. La femminilità seducente di Marion in
Due giorni, una notte viene snaturata
- ricordo i suoi numerosi contributi a spot pubblicitari per
marche di moda e cosmetici. Questo corpo bellissimo e raffinato diventa rigido, quasi mascolino. Una macchina da guerra che a forza di combattere si indurisce e ingobbisce, come quello di un operaio che ne ha viste di cotte e di crude. Se solo se ne facessero più frequentemente di film di questo livello!