di Efisio Loi
È venuta fuori lì, a ridosso della Groenlandia, dai magmi profondi della dorsale atlantica. Chi sa come dovevano essere le cose quando la Groenlandia era verde come dice il suo nome. Forse l’Islanda, terra di ghiacci, ancora non esisteva. Tiene lontano il mare per uno spazio cinque volte quello della Sardegna. Solo trecentomila anime combattono l’esistenza concentrandosi lungo le coste per lo più del sudovest. 20% di pascoli, 1% ai coltivi. Un grande spazio lavico fin oltre i duemila metri, in mano alla natura che ci gioca con fuoco e scuotimenti, col vapore e col ghiaccio.
Che lingua parlano quei trecentomila? L’islandese, parlano e solo loro lo fanno. Hanno riavuto l’indipendenza nel 1941, prima erano, come ancora la Groenlandia, terra del re di Danimarca. Nel 1971, il 21 di aprile, un vascello della reale marina da guerra danese, riportò a Reykjavìk le pergamene delle saghe di quel popolo. Quello stesso giorno, a Copenaghen, tennero le bandiere a mezz’asta in segno di lutto.
In quale lingua sono scritte quelle pergamene? In Islandese, sono scritte, lingua di pochi pastori. Era dal 1618, inizio della guerra dei trent’anni, che Svezia, Norvegia e Danimarca si contendevano quelle reliquie, senza guardare per il sottile pur di conservarle o farle proprie. Anche l’America, quella degli States, cercò di metterci le mani sopra. La Danimarca non si fece incantare; alla fine, le riportò nella loro patria nel quarantennale dell’indipendenza.
Cosa c’era di così importante in quelle pergamene? C’era la saga, c’erano i miti del popolo sassone, il popolo del nord e dell’occidente, scritti nella sua lingua. Per una saga e per una lingua si può combattere e si può vivere. Wagner si basò su quei testi islandesi per comporre l’Anello dei Nibelunghi, la tetralogia sulla mitologia germanica. Senza sconfinare in apologia del nazismo, possiamo dire che il passato ci piace guardarlo attraverso lo specchio retrovisore della nostalgia.
Possiamo anche dire con Borges che il passato che più ci piace è il presente quando il presente è nel passato: “…/che cosa non darei per la gioia / di stare accanto a te in Islanda /…/ e condividere l’adesso /…/ In quel preciso momento / l’uomo stava accanto a lei in Islanda”.
Se si va in Islanda non si viene accolti dal folklore che fa storcere il naso a Nifoi e a Angela Murgia, si vive nel mito. Si gira tra la gente, ci si siede davanti al mare, e si viene attraversati dalla saga. Saga e geyser sono gli unici due nomi che siano diventati internazionali, di tutta l’antica lingua sassone. Eppure quelle “leggende”, in quella lingua, hanno attraversato spazi enormi di tempi e di culture prima di fermarsi in quella scheggia di lava per essere impressi sulla pergamena. Sono diventate una radice riconosciuta e contesa in tutto il mondo occidentale.
E noi? Siamo lì a fare gli schizzinosi, a sminuire, ad occultare, a delegittimare, per non mettere a repentaglio una faccia che rassomiglia molto a un lato B. Chi ha avuto l’intuizione, da cui si ritrasse, diciamo per rigore scientifico, di un mondo immerso nel magico di una religiosità ormai inconcepibile, è diventato l’ “ipse dixit” di chi nasconde la propria ignavia. Anche nella lingua si possono fare degli accostamenti se guardiamo con attenzione a quanto sta venendo fuori dai nostri antichi cocci e dalle nostre antiche pietre. In quelle pergamene d’Islanda è tutto un parlare per immagini, per allusioni, per metafore. Ci dicono niente gli studi di Gigi Sanna e di Aba Losi sull’antica scrittura sarda?
Eravamo sulla congiungente tra oriente e occidente, tra nord e sud. Ce n’era di gente nella nostra isola, c’era stata una grande civiltà anche prima dei nuraghi. Tutto, però, ci deve essere venuto da fuori. Porto franco per i traffici degli altri, altro non siamo stati. È vero che il tempo non passa invano ma quello che è perduto non è perduto per sempre se si conserva nell’animo una scintilla. Anche una saga, un’antica lingua possono essere “su fairifairi”; ecco cos’è un mito, per dirlo a chi si poneva la domanda anche da queste parti. Una balla? Una panzana?
Qualche volta anche la verità storica, ben documentata e accertata, può diventare folklore, quando non propaganda. Penso a “sa Die de sa Sardigna”, messa in scena da un famoso regista, dove i fanti meccanizzati della Brigata Sassari assumevano il ruolo degli armigeri piemontesi. I “Dimonios” si rifiutarono, dopo qualche esperienza, di essere sputati e bastonati dalla “folla inferocita”. La folla non era formata da comparse, era la cittadinanza di Cagliari che agiva, nell’estasi del regista, come il coro nelle antiche tragedie, non accontentandosi delle parole. La ricostruzione storica diventava una manifestazione “spontanea” contro il potere. Folklore e propaganda. Si cercò di porre rimedio, transennando il percorso dei figuranti. Non ci fu seguito; la ricostruzione storica tramontò. Non c’erano più, seppure solo in metafora, polvere e sangue che è quanto maggiormente ama la folla quando diventa protagonista.
In Islanda, tanto per dirne una, una saga, non so se l’ultima, è stata scritta nel 1952 e fa parte a pieno titolo delle “sogur” nazionali. Scritta in lingua islenska, si intende e con i personaggi dell’epica sassone.
“Grazie alla nostra lingua, grazie alle saghe, non ci siamo persi come una goccia nell’oceano. Senza di esse non saremmo di nuovo una nazione”, disse il primo ministro islandese ricevendo dai marinai danesi le pergamene delle antiche leggende.
Qui da noi, non solo non si immagina niente di nuovo seguendo il solco di una tradizione, si nega anche l’evidenza e si passa all’ingiuria e all’invettiva quando non basta la supponenza e l’arroganza per mascherare l’ignoranza.
Non per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ché di democristiani basta e avanza, ma dovremmo mettere un po’ di ordine nella difesa del nostro misconosciuto patrimonio. Troppe se ne sentono che non si sa dove collocare, se in cielo o in terra o in un’isola che non c’è.
Attenzione, però, a non incorrere nell’errore che più contestiamo: l’edificazione di un’Accademia che ne sostituisca un’altra. Troviamoci assieme, tutti quelli di buona volontà, a discutere e, magari, a prenderci a male parole. Se solo servisse a farci capire che ci diamo da fare per lo stesso motivo, sarebbe un successone. Ne trarrebbe vantaggio anche la politica.
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