Magazine Cultura
Nella seconda metà del terzo atto abbiamo Violetta in camera sua ormai pronta a morire di tubercolosi: è sempre una donna e aspetta l'uomo amato, per cui ci sta che provi a truccarsi, a farsi bella per l'arrivo del suo innamorato. Ma con quell'agilità? Violetta, alle prese con un armamentario degno di Madame Bovary (e ammetto che ho pensato a una qualche allusione o parentela), si serve di farmaci che sembrano liquori, si abbandona al sonno sciatto su un pavimento freddo avvolta soltanto da un piumone. Sembra una drogata, sembra una scena di Trainspotting. E più ci penso, meno mi convince questa visione della morte che ci si dà, questa morte che si sceglie, questa morte moralizzata. La morte è morte, non dipende da noi, e la malattia fa male. Il pietismo e l'eccessa fiducia nella correlazione simbolica sembrano farci dimenticare la nostra natura mortale, sembrano farci dimenticare che una fitta al petto non è un attimo di straziante malinconia, ma la carne che si ribella al nostro - e al suo stesso - desiderio di vita.
Come sempre, quando si eredita una cultura migliore della propria, quando si risale dalle profondità di un'analisi viscerlae, usiamo un armamentario di parole e concetti - malattie psicosomatiche, somatizzazioni ecc. - stravolgendone il senso. Violetta è malata davvero, con tutto ciò che di sgradevole e poco oleografico c'è nella carne umana sottoposta alla malattia: e, se è giusto - e secondo me è giusto e indispensabile - orientarsi al trascendente per cercare spiegazioni e pace (se non giustizia), è perlomeno volgare e stupido e irrispettoso, degno di un moralismo d'accatto, limitarsi a una correlazione en passant tra chi "si lascia andare" e il sopraggiungere della morte. Questo Verdi lo sapeva benissimo e basterebbe pensare e badare un po' a chi sta male per capirlo tutti. Ogni altra considerazione che chiama in causa il malato come colpevole e ignora le malattie reali, la loro noia e le loro noie e la morte della carne è solo uno squallido, cieco, colpevole moralismo. La sublimazione esistenziale non esclude la realtà della sofferenza e dell'insofferenza verso una vita di dolore che non scegliamo. Si sta male e si muore e spesso senza sapere il perché. Stop.
(Stesso dicasi, va da sé, per i ricatti morali e altri atteggiamenti odiosi che nascono da inopportune semplificazioni: impariamo ad accettare le cose e quel che le trascende, una buona volta.)
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