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Due parole sulla Traviata di Milano e sulla morte

Creato il 08 dicembre 2013 da Spaceoddity
Ieri sera tra gli aggiornamenti di molti miei contatti Facebook fioccavano gli insulti alla prima della Traviata alla Scala. Io ne ho visto, e oggi, solo il terzo atto e capisco le critiche. La regia di Dmitri Tcherniakov era inverosimile, epidermica e fastidiosa in molte scelte importanti, la direzione di Daniele Gatti, bacchetta che di solito amo, a mio avviso precisa, ma un po' troppo lenta e rilassata (quasi in contrasto con il canto, in alcune battute), Piotr Beczala - che pure a teatro ha reso alla perfezione quel personaggio meschino e miserabile che è Alfredo - non mi è piaciuto per voce e interpretazione e, sul piano dello spettacolo, ho amato solo la bellissima Violetta di Diana Damrau, che a mio avviso ha il timbro giusto (anche se non basta, alla Scala). Ma non è di questo che volevo parlare qui, è di un'altra cosa: di Traviate ne ho visto abbastanza e questa farà semplicemente compagnia ad altre senza storia.
Due parole sulla Traviata di Milano e sulla morteNella seconda metà del terzo atto abbiamo Violetta in camera sua ormai pronta a morire di tubercolosi: è sempre una donna e aspetta l'uomo amato, per cui ci sta che provi a truccarsi, a farsi bella per l'arrivo del suo innamorato. Ma con quell'agilità? Violetta, alle prese con un armamentario degno di Madame Bovary (e ammetto che ho pensato a una qualche allusione o parentela), si serve di farmaci che sembrano liquori, si abbandona al sonno sciatto su un pavimento freddo avvolta soltanto da un piumone. Sembra una drogata, sembra una scena di Trainspotting. E più ci penso, meno mi convince questa visione della morte che ci si dà, questa morte che si sceglie, questa morte moralizzata. La morte è morte, non dipende da noi, e la malattia fa male. Il pietismo e l'eccessa fiducia nella correlazione simbolica sembrano farci dimenticare la nostra natura mortale, sembrano farci dimenticare che una fitta al petto non è un attimo di straziante malinconia, ma la carne che si ribella al nostro - e al suo stesso - desiderio di vita.
Come sempre, quando si eredita una cultura migliore della propria, quando si risale dalle profondità di un'analisi viscerlae, usiamo un armamentario di parole e concetti - malattie psicosomatiche, somatizzazioni ecc. - stravolgendone il senso. Violetta è malata davvero, con tutto ciò che di sgradevole e poco oleografico c'è nella carne umana sottoposta alla malattia: e, se è giusto - e secondo me è giusto e indispensabile - orientarsi al trascendente per cercare spiegazioni e pace (se non giustizia), è perlomeno volgare e stupido e irrispettoso, degno di un moralismo d'accatto, limitarsi a una correlazione en passant tra chi "si lascia andare" e il sopraggiungere della morte. Questo Verdi lo sapeva benissimo e basterebbe pensare e badare un po' a chi sta male per capirlo tutti. Ogni altra considerazione che chiama in causa il malato come colpevole e ignora le malattie reali, la loro noia e le loro noie e la morte della carne è solo uno squallido, cieco, colpevole moralismo. La sublimazione esistenziale non esclude la realtà della sofferenza e dell'insofferenza verso una vita di dolore che non scegliamo. Si sta male e si muore e spesso senza sapere il perché. Stop.
(Stesso dicasi, va da sé, per i ricatti morali e altri atteggiamenti odiosi che nascono da inopportune semplificazioni: impariamo ad accettare le cose e quel che le trascende, una buona volta.)

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