Qualche sera fa, rientrando da una cena fuori casa, ho investito un uccello notturno. I fari della macchina erano accesi, alti, tramutavano la strada in una lugubre spianata gialla. L’uccello era lì, da una parte, appollaiato come un sasso, o come il cadaverino di un gatto schiacciato dalle ruote di un camion, era immobile e irriconoscibile. Nel fulgore dei fanali, la polvere della sua ombra si è sollevata in un secondo, prima che gli passassi accanto con le ruote anteriori della macchina, l’incerto groviglio di piume, grosso come un gomitolo di lana, si è alzato in un volo ipotetico, rialzandosi da terra di un metro e mezzo e tagliandomi la strada, nel medesimo istante è piombato sul parabrezza, l’urto ha prodotto un rumore simile alla rottura del guscio di un uovo sulla superficie liscia di una pietra. Sul vetro sono rimaste incollate due piume, due bandierine bianche, e un minuscolo grumo di sangue. Per un istante ho creduto di vedere sul vetro l’impronta del suo corpo nudo di piume che svaniva nella notte. Avrei dovuto fermarmi, accostare la macchina sul ciglio del tornante di collina, scendere e fare due passi indietro, accertarmi in qualche modo che l’uccello fosse ancora vivo. Ma che avrei fatto, invece, se avessi assodato la sua morte? Forse l’avrei spinto con la punta della scarpa a un lato della strada. O forse mi sarei seduto lì di fianco, in attesa che qualche bestia selvatica se lo portasse via nel folto dei campi di girasole. Io nella nebbia, nel buio, per un momento ho pensato ai soldati morti nelle fredde notti italiane di settant’anni fa, nudi fino alle ossa e senza un nome, inghiottiti dalla terra e dalla storia, senza che niente ne serbi il ricordo o la traccia del loro passaggio sulla terra, come un uccello, appunto, travolto dai fari di una macchina. Poi quel pensiero è svanito, è rotolato via nei soffi della notte, insieme alle due piume bianche appiccicate sul vetro.
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Mile Pešorda, da ARS POETICA
L’uccello lacera la notte, portando nell’agone il prodigio delle lontananze,
e lancia un grido, morto, in un albero, nel mio petto.