DUE RACCONTI DI FRANZ KAFKA (PRAGA 1883 – KIERLING, VIENNA 1924)
Estraiamo con determinazione questi due racconti dall’immensa e inesauribile miniera dell’autore praghese. Sono succinti e quanto mai densi di temi. La loro composizione risale al 1922, ossia a solo due anni prima della morte dello scrittore. Data la brevità, riportiamoli, nella traduzione di E. Pocar per l’edizione Mondadori.
LA PARTENZA
Comandai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo e montai in groppa. Udii suonare una tromba in lontananza e domandai al servo cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito niente. Presso il portone mi trattenne e chiese: “Dove vai, signore?”.
“Non lo so” risposi. “Pur che sia via- di- qua, sempre via- di- qua, sempre via- di- qua, soltanto così posso raggiungere la meta”.
“Dunque sai quale è la tua meta” osservò.
“Si” risposi. “Te l’ho detto. Via- di- qua; ecco la mia meta.”
“Non hai provviste con te”.
“Non ne ho bisogno” risposi. “Il viaggio è così lungo che dovrò morir di fame se non trovo nulla per via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente straordinario”.
Il protagonista da un ordine netto, ma non viene capito dal suo subordinato. Perché? Potrebbe trattarsi di un servo sciocco o distratto. Poco dopo il testo ci riporta che un misterioso suono di tromba viene udito solo dal partente. Ciò deporrebbe di nuovo a sfavore del servitore. Eppure questi è sollecito verso il padrone. Gli chiede dove va e poi osserva giustamente che lui deve conoscere la sua meta. Possiamo allora pensare che l’uomo si muova di rado, tanto che il suo ordine non è stato compreso; potrebbe essere una persona che forse all’improvviso raccoglie le forze che gli restano per compiere un viaggio importante, meravigliando chi lo conosce. Un viaggio che intraprende da solo e per di più senza provviste. Si può ritenere che le normali risorse, quelle materiali, in questo caso non servano a nulla. Si tratta, infatti, di un’impresa notevole dato che si usa il termine straordinario.
Altra parola forte è “salvare”. Si parla di vita e di conseguenza anche di morte. Quel “via- di- qua” ribadito quattro volte segna una cesura netta tra due mondi, tra il noto e l’ignoto. Il protagonista va verso la morte; come ogni uomo anch’egli compie il suo percorso individualmente, potendo contare solo su se stesso nel momento in cui la sua esistenza si avvia alla conclusione, richiedendo tutto ciò riflessioni personali che solo nella propria interiorità si possono fare. Non è un andare senza speranza, poiché potrebbe trovare qualcosa per via, ci viene detto. Quel qualcosa può essere molte cose; senz’altro si tratta di un percorso di conoscenza e di ricerca, da compiere quando il corpo e le forze lo permettono. Non ci sembra si tratti di un vecchio, pronto a lasciare una vita che nulla può più offrirgli, dato che il protagonista è in grado di sellarsi da solo il cavallo e di montarlo senza aiuto. Inoltre i suoi sensi sono all’erta: sente infatti la tromba. Quello che si configura è il viaggio di ognuno, l’essere per morire; esso va iniziato per tempo, in solitudine.
Non tutti lo fanno con la stessa consapevolezza. Non tutti sentono il suono della tromba e si mettono in marcia; nemmeno si può trasferire agli altri questa sensibilità particolare, come ci attesta lo scarno dialogo che si svolge tra due persone che parlano su piani diversi. La distanza dal servo si acuisce infatti quando si parla delle provviste. Il padrone alla fine ci appare come una figura superiore, animata da coraggio e determinazione. C’è qualcosa di epico e di eroico nelle ultime parole del testo. Il viaggio che deve compiere è lungo e doloroso, ma “per fortuna veramente straordinario”. Bisogna raggiungere la coscienza della straordinarietà della propria vita e avere la forza per andare a cercare la prova di questa straordinarietà, andando “via- di- qua”.
RINUNCIA!
Era la mattina per tempo, le vie pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello di un campanile, vidi che era molto più tardi di quanto avessi pensato, dovevo affrettarmi assai, lo spavento di quella scoperta mi rese incerto della via, non conoscevo ancora bene questa città; fortunatamente vidi una guardia poco distante, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada. Egli sorrise e disse:
“Da me vuoi sapere la via?”
“Appunto,” risposi “dato che non so trovarla da me.”
“Rinuncia, rinuncia!”. E si girò con grande slancio, come chi vuole essere solo con la propria risata.
Anche qui si parla di un viaggio, ma non di un viaggio improvviso. Non si tratta di andare a cavallo, ma di prendere un treno. Tutto dovrebbe essere comodo e agevole. Il protagonista è partito per tempo e trova le vie pulite e deserte. Quindi ci sono ordine e razionalità. La partenza per la stazione non è stata decisa all’ultimo momento. Eppure tutto si incrina in modo precipitoso; uno sguardo all’orologio del campanile fa sorgere il dubbio che sia già tardi e inoltre l’uomo teme di sbagliare strada. Le categorie di tempo e spazio sfuggono alla serena conoscenza del partente. Si cerca allora di avere una risposta da una guardia, non da un passante qualunque. L’autorità pubblica dovrebbe dare sicurezza nella quotidianità dei cittadini. Eppure la risposta appare beffarda; anzi è una domanda seguita da un secco “Rinuncia, rinuncia!”.
La guardia si volta in fretta, ridendo. Eppure dalle autorità ci si dovrebbe aspettare compostezza e serietà. In pochi momenti ogni appiglio razionale è venuto meno; il protagonista è solo, in un ambiente che non conosce e la sua situazione di disagio sembra essere senza sbocchi. Non c’è la parola speranza che abbiamo trovato alla fine dell’altro testo. Risuona fortissimo il rude invito a rinunciare, a non cercare di sapere, come se farlo non avesse senso. La conclusione è drammatica, senza elementi consolatori. Non c’è quindi ragione di conoscere? Si deve rinunciare? L’esortazione della guardia appare brutale, quasi inumana, accompagnata da un atteggiamento canzonatorio. Ci si potrebbe chiedere allora quale sia il ruolo dell’autorità se essa non costituisce un riferimento serio e attendibile.
Il pensiero va al Processo. Pensiamo al dialogo tra K. e il cappellano nel Duomo e alle oscure (forse perché troppo chiare) parole di quest’ultimo: “Il tribunale ti riceve quando vieni, ti lascia andare quando te ne vai”. Parole difficili da interpretare, ma che sembrano certificare l’inutilità della ricerca di chiarezza del protagonista. L’autorità è indifferente e lontana; esiste, c’è, ma non ti cerca, non ti trattiene, e soprattutto lascia a te i tuoi interrogativi, li respinge. Non offre risposte, anzi si meraviglia che il cittadino ne chieda come mostrano il sorriso della guardia e le sue parole: “Da me vuoi sapere la via?”.