Il dramma di Haiti e quello dell’Aquila.
Realtà distanti e differenti, accomunate tuttavia da analoghe sofferenze e morti.
Terremoti che hanno stroncato centinaia e centinaia di esistenze inermi.
E di ogni età.
E, diciamo pure che, in entrambi gli scenari, responsabile di quanto è accaduto è l’incuria dell’uomo che, appena può, gioca a scarica barile e imputa tutte le responsabilità alla sola natura.
Mentre un margine di prevedibilità c’era, e come se c’era, per impedire due enormi tragedie con tutto il carico di tragiche conseguenze , di cui ben sappiamo.
Louis Philippe Dalembert, scrittore haitiano, ci propone nel suo ultimo romanzo (“Ballata di un amore incompiuto”, edito da Frassinelli) la storia di due vite parallele che il destino e/o il caso (come piace a noi) trasforma in un’unica storia di dolore e di precarietà.
Protagonista maschile è Azaka, un immigrato, che è giunto in Italia, in Abruzzo per la precisione, per cercare lavoro e ricostruirsi anch’egli, finalmente, un’esistenza dignitosa.
Ma Azaka, a dieci anni, durante il terremoto di Haiti ha vissuto momenti d’angoscia autentica, sepolto per interminabili ore sotto le macerie della propria abitazione in un’attesa infinita dei soccorsi. Trauma , questo suo, che non è mai più riuscito a rimuovere.
Azaka, una volta a L’Aquila, incontra Mariagrazia, una giovane donna di cui s’innamora e che felicemente sposa. E dalla quale attende un figlio.
Una storia semplice, di buoni e onesti sentimenti, fondata su solide basi ma, trattandosi di un matrimonio misto, non esente, com’è inevitabile, da sciocchi pregiudizi da parte della gente del luogo.
Con il terremoto dell’Aquila, che sorprende la coppia nella fatidica notte, Azaka rivive di nuovo e per intero il dramma della sua infanzia.
E questa volta è Mariagrazia a essere sotto le macerie della loro abitazione.
Un dolore, una ferita non rimarginabile, un’angoscia, che non ha mai abbandonato Azaka dai tempi di Haiti e che, per assurdo, inaspettatamente si ripropone, facendogli ancora più male.
Il bello di questa storia, nonostante gli strattoni della sorte, è che bisogna leggerla intelligentemente più che altro come un racconto sociale.
Azaka e Mariagrazia costituiscono solo il pretesto per una denuncia soft ma sempre denuncia di ciò che si poteva fare e non è stato fatto, né prima, né dopo. Tanto ad Haiti che all’Aquila.
Un racconto, insomma, che fa riflettere su potere politico e società. Su burattinai e burattini. Su “colletti bianchi” e gente comune.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)