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Due-tre cosette sull’eretico Pasolini e sul libro di Lucarelli

Creato il 08 novembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
446px-Pier_Paolo_Pasolini2di Gigi Montonato. Carlo Lucarelli ha scritto un libro su Pasolini in ricorrenza del quarantesimo anniversario della tragica morte dello scrittore, PPP Pasolini, un segreto italiano (Rizzoli, 2015). Tra le tante rievocazioni apparse quest’anno sull’argomento da me intercettate è quella che ritengo la più significativa. 220 pagine in cui l’autore riflette su Pasolini e su tante altre gravi e misteriose vicende italiane del secondo dopoguerra. Per capire, però, il suo punto di vista nei tornelli dei suoi tanti ragionamenti, espressi nel suo stile di venditore di sensazioni, bastano otto righe a pag. 180.

“Ci sta che in quegli anni, che dai pugni e gli schiaffi ai comizi e alle manifestazioni sono passati rapidamente, attraverso le bombe, alle spranghe e ai coltelli e stanno andando ancora più velocemente verso le pistole, uno così, uno come Pasolini, frocio, comunista e pure intellettuale (nessuna cosa esclude l’altra), si ammazzi  con la furia e la ferocia di un agguato premeditato”.  

Ecco: ci sta. Due gocce di parole che spiegano il mare di una narrazione infinita. La penso anch’io così, ma senza entrare ed uscire da supposizioni varie, che fanno pensare al delitto politico perché Pasolini dava fastidio, come dava fastidio Enrico Mattei, come dava fastidio Mauro De Mauro, come dava fastidio Aldo Moro e via di seguito nella lunga scia di misteri o piuttosto, come suggerisce Lucarelli, segreti italiani.

Sono del parere che, fatta salva la verità processuale, secondo la quale, terzo grado di giudizio, fu il solo Pino Pelosi ad uccidere Pasolini nel corso di un rapporto omosessuale degenerato, altre verità, cosiddette storiche, non ne esistano in difetto di prove o di argomentazioni serie, organiche e consequenziali; sono altresì convinto che la verità processuale non esaurisce né chiude la vicenda, che si presta sia alla soluzione semplicistica del delitto d’impeto in seguito ad un alterco sia all’agguato di più persone per odio politico o razziale. Chi può dire come siano andate veramente le cose?

A quei tempi – siamo alla fine del 1975 – essere omosessuale non è lontanamente paragonabile all’essere omosessuale oggi. Ricordo, se serve a dare l’idea che si aveva degli omosessuali all’epoca, che quando della morte di Pasolini parlai con un anziano signore di Taurisano intento a spazzare davanti al suo negozio – hai sentito? Hanno ammazzato Pasolini, quel grande intellettuale – quello, senza minimamente sorprendersi, continuando a spazzare, commentò testualmente: “sì, ma dice che faceva le porcherie con la parte di dietro”, come se ciò potesse giustificare il suo assassinio. La cosa faceva ridere gli amici quando gliela raccontavo, quella castigatissima “parte di dietro” soprattutto.

Io Pasolini lo conobbi così. Leggevo abitualmente “Il Borghese”, settimanale di destra diretto da Mario Tedeschi, un ex repubblichino, e da una terribile Gianna Preda, una giornalista tosta, esperta ed intrigante. Era proprio costei a tenere le polemiche più violente nei confronti di Pasolini, che peraltro era stato espulso qualche anno prima dal Pci proprio per motivi di omosessualità con ragazzini. Insomma Pasolini, già scrittore e regista affermato, era particolarmente nel mirino della stampa all’epoca definita tout court fascista.

Di lui mi feci un’idea diversa. Avevo letto “Le ceneri di Gramsci” e “Poesia in forma di rosa”; lo seguivo sul “Corriere della Sera” all’epoca diretto da Piero Ottone. I suoi film no, non mi piacevano. Troppo sesso, troppa degenerazione, troppa pornografia ed etica del porcile. Nei confronti del mondo dei poveri, dei brutti, degli ignoranti, degli sconfitti sociali Pasolini aveva una sorta di mistica.

Negli anni Settanta i giudizi su Pasolini incominciarono a cambiare, anche negli ambienti di una certa destra, per quella sua difesa della tradizione, delle persone e delle cose di una volta, trasformate con l’omologazione borghese e progressista, piatta e consumistica. Certo, non era la stampa di destra più immediatamente politica e propagandistica, ma una destra più attenta e attrezzata culturalmente. Ne nacque una questione: Pasolini di sinistra o di destra?, che ancora oggi appassiona. E se uno rilegge i suoi “Scritti corsari” o le sue “Lettere luterane” di dubbi che Pasolini fosse lentamente scivolato su posizioni culturalmente, non politicamente, reazionarie ne ha più di uno.

La vicenda Pasolini ha un qualche legame con Taurisano, che è il mio paese, nel più profondo Salento, perché l’avvocato Rocco Mangia che difese il suo assassino era originario di Taurisano, uno dei tanti giovani professionisti meridionali che avevano scelto la strada dell’emigrazione verso il centro e il nord dell’Italia. E noi, come accade in tutti i paesi, seguivamo i suoi successi forensi nei processi di risonanza nazionale, il più delle volte facendo il tifo per lui.

Rocco Mangia difese il Pelosi con la solita passione che metteva, come del resto fanno tutti gli avvocati – è il loro mestiere, a volte odioso; ma è il loro mestiere! – nei confronti dei loro assistiti. La sua difesa fece uscir bene il pur reo confesso assassino, ma fece trionfare una verità mai accettata da tanti intellettuali, giornalisti e perfino avvocati di sinistra. Per questo hanno decretato nei suoi confronti una specie di damnatio nominis, assolutamente incomprensibile specialmente da parte dei suoi colleghi. Che doveva fare l’avv. Mangia, pilotare la difesa del Pelosi verso la difesa contemporanea di Pasolini, posto che l’una fosse compatibile con l’altra? Sarebbe assurdo semplicemente pensarlo. Un avvocato deve fare gli interessi del suo assistito, non di altri, chiunque essi siano e quali che siano le motivazioni, anche le più nobili. Nel film di Marco Tullio Giordana “Pasolini, un delitto italiano”, dell’avv. Mangia viene fatta una caricatura, come a voler vendicare un torto subito: tu hai tanto infierito contro Pasolini e noi, suoi grandi e irriducibili estimatori, infieriamo su di te; così impàri!

Pasolini è stato un grande della nostra cultura. Poliedrico e radicale in tutte le sue manifestazioni: letteratura, giornalismo, cinema, impegno civile. Il che non significa che non sia anche criticabile per certe sue posizioni, e non mi riferisco alla sua omosessualità, che, peraltro, stando alle testimonianze di chi lo conosceva bene, viveva con grande sofferenza. Mi riferisco a quel suo aristotelismo dell’ipse dixit, che in termini moderni si sintetizza in quel “io so, perché sono un intellettuale”. Un intellettuale sa soltanto una cosa, che la verità, quale prodotto finito e confezionato, non esiste; esiste come ricerca della verità. Tanto vale per gli stessi giudici e storici. Dire “io so perché sono un intellettuale” significa negare in radice la verità nel suo essere ricerca. Fuori dal suo essere ricerca la verità non esiste.

Si continua e si continuerà sempre a sostenere la tesi di Pasolini ucciso da nemici politici, con sempre nuove presunte prove; ma sono fiori, che si portano ad un morto per affetto e perenne ricordo. Queste mie riflessioni non sono fiori, ma all’eretico Pasolini forse sarebbero piaciute. 


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