L'Italia è sempre stato il paese della cuccagna agra. Lo dimostrano, ognuno a proprio modo e ognuno con sorprendente analogie verso l'altro, due film caduti nell'insopportabilmente capace dimenticatoio culturale: La cuccagna (1962) di Luciano Salce e La vita agra (1964) di Carlo Lizzani.
Entrambi cercarono con questa cifra divertita di addentrarsi dentro la retorica buonista della crescita industriale di quegli anni. Scelsero lo stesso cuneo narrativo: un Candido provincialotto che in un crescendo tragicomico scoperchia la vera natura di quel successo
Con un biennio di distanza dalla rispettiva uscita nelle sale sono però entrambi profondamente incastonati in quello che ora è un reliquario sfaccettato di nostalgie impossibili e di ritorni espansivi dell'economia. Siamo, cioè, in quello che ai coevi apparve come un miracolo produttivo, un boom causato dalla deflagrazione delle potenzialità di un'Italia che poteva solo rialzarsi dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Florilegi idealistici sono fioriti sulla tomba di un periodo storico che però, più che morire per cause esterne, si è fatto fagocitare dalle sue debolezze strutturali. Pur nel loro alterno esito, lo hanno previsto con ampia comodità profetica queste due opere di due registi molto diversi tra loro (inteso ironicamente; la realtà era sotto gli occhi di quelli che volevano vederla già in quel periodo ma poi, come accade sempre con il revisionismo storico, è stata edulcorata): Lizzani infatti giocava con i generi, Salce con il cinema. Entrambi cercarono con questa cifra divertita di addentrarsi dentro la retorica buonista della crescita industriale di quegli anni. Scelsero lo stesso cuneo narrativo: un Candido provincialotto che in un crescendo tragicomico scoperchia la vera natura di quel successo.
Luciano, il protagonista de La vita agra, provinciale lo è davvero. Si trasferisce da un piccolo paese della Bassa Padania, da Guastalla precisamente, a Milano con intenti dinamitardi. Vuole infatti far saltare in aria il "Torracchione", il grattacielo che fa da sede alla CIS, la multinazionale chimica che lo ha appena licenziato e che per scelte di spending review ha appena tagliato (naturalmente) le spese per la sicurezza rendendosi responsabile dello scoppio della miniera e della morte di 43 operai. Anche Rossella, la protagonista de La cuccagna, in fondo non ha che tutta l'ingenuità di una fanciulla di borgata. È di Roma ma una diciottenne che fa la spola tra il salotto con, a quei tempi, l'inevitabile Carosello e la scuola, conosce la vita quanto un bracciante lucano o un pastore abruzzese. Pur con le marcate differenze anagrafiche, sessuali e culturali, Rossella e Luciano si scontrano con il vorticoso mondo del lavoro alla ricerca di un riscatto, familiare lei, intellettuale-rivoluzionario lui. Cosa offrono in termini di opportunità le due più grandi città d'Italia nel pieno del botto industriale a due umili qualsiasi? La risposta dei due registi è cristallina e, al netto di scelte stilistiche, accomunabile.