Duebàr

Creato il 01 novembre 2010 da Cittasottile

Il bar è un’estensione calda della strada. Un posto dove scaldarsi d’inverno, dopo un affrettato camminare nell’aria basita dal gelo, dove insieme al caldo dei termosifoni e della macchina del caffè a volte si trova un’umanità accogliente, un’atmosfera complice, un barista aperto come un libro d’avventure.

La mia camminata verso l’ufficio la mattina è un bel zigzagare tra le vie squadrate di Vanchiglia e del Centro. Da circa un anno, da quando all’aria rarefatta di Borgo Po ho preferito la vivace e popolana Vanchiglia – insomma da quando vivo nella mia nuova casa al terzo piano con balconi ampi e fioriti anche se con vista sui balconi altrui e non sulla bohemien via Ornato sia pur dietro grate al piano terra che facevano un po’ prigione – per recarmi al lavoro attraverso questo grappolo di isolati, fermandomi talvolta per un caffè.

Il primo bar che preferisco è una grande locale affacciato sul mercato di piazza Santa Giulia. È un bar popolare, pieno di pensionati che spendono il tempo giocando a carte, parlando di politica, di sport, di tv. Il caffè sa un po’ di bruciato, ma la signorina che lo serve ha un bel sorriso e accoglie tutti quelli che entrano come se fossero parenti in visita. La signora con il bambino in braccio le fa dimenticare gli astanti al banco, il vecchio immigrato dal sud la stuzzica con battute scipite; la scena è dominata da una selva di ritratti di Marylin, il cui volto luminoso spunta dal vassoio appoggiato sul microonde, nel grande ritratto appeso sui tavolini, nell’ovale di una finestra sul bancone, nella piccola tela stampata in serigrafia vicino alla porta del bagno, mentre, sulla parete a fianco dell’ingresso, il volto giovane e rigoglioso di Ernesto Guevara sorride porgendo le labbra a un sigaro cubano, ancora nel pieno della giovinezza e virginale nella sua fede nella vittoria. Una foto che non posso non guardare ogni volta che entro e che suscita in me quel rimpianto della giovinezza che non provo e non ho mai provato nei confronti di me stesso. Per me quella foto è l’essenza della vita al massimo della potenza, un insieme di forza vitale e innocenza: è il sole dell’intelligenza che risplende attraverso gli occhi di un uomo. É “un bel posto”, come recita pretenziosamente, ma a ragion veduta, l’insegna.

Nel bar c’è un cagnolino che si avvicina scodinzolando e bruca le briciole lasciate cadere dai croissant degli avventori. C’è una mamma che prepara i pasti e una figlia che li propina ai clienti. Ci sono i pensionati che scendono in strada per incontrarsi, i venditori di verdure che perdono il conto dei caffè sorbiti per scaldarsi, i contadini che vendono uova e vino tenuti al caldo dentro ai furgoni, e cercano un punch rosso fuoco. Ci sono gli annegati nel grigioverde – un miscuglio infame che uccide i pensieri fin dall’alba – che puzzano di tabacco e fumo di cherosene, gli occhi nascosti dietro fessure di palpebre. Fuori, le bancarelle dei salumi voltano la schiena ai tavolini ammassati sul marciapiede. È un bar di retrovia: davanti ai carretti frigo madame fresche di petnoira e forme di gorgonzola dentro alle vetrine, con tome d’alpeggio e caciocavalli odorosi, ricotte e pecorini sardi; dietro, pietre di Luserna appiccicose di verdure marcite e il via vai veloce di gente indaffarata.

Ma a volte non passo di là, oppure vado diritto per la mia strada e il caffè non è un desiderio assillante, almeno non ancora. Allora proseguo per l’animata via Santa Giulia, piego in largo Montebello verso la Mole e passo davanti al Museo del Cinema, al Teatro Scribe alla cui finestre morte si affacciano attori che esistono ormai solo in celluloide. Poi prendo via Verdi, passo davanti alla Rai e all’Università, mi affaccio nel cortile cadente della Cavallerizza, leggo gli striscioni dei residenti sfrattati e fiancheggio il Teatro Regio, dove talvolta escono dalla grande porta del retropalco colonne con capitelli dorici di polistirolo e troni di cartapesta sollevati da litigiosi operai in tuta blu.

Qui c’è il secondo caffè preferito, dove forse alla sera stazionano vecchie signore coperte di animali morti, allenate all’ipocrisia, che vivono nella vetrina delle vite fotocopia spalmate sulle giornate vissute nei silenzi dei piani nobili, reduci dal rito dell’opera. Al mattino, invece, le strie lasciate dai profumi costosi sono fuggite, o rubate dalle correnti aperte per cambiare l’aria. Cedono il passo a un’aria nuova, restituita lavata e stirata dalla notte che si arrende al giorno. E così, a volte mi piace entrare in quest’aura asciutta e candida, la cui forma è segnata dalle lucide vetrine colme di pasticceria, dal bancone stretto, dai pochi tavolini che stazionano sotto la scala. Oltre il bancone c’è un barista elegante e sobrio, che sorride quanto basta, intento ad asciugare le tazze e i bicchieri a calice, che accoglie con un cenno il mio sguardo invitandomi a ordinare. L’aria è colma di musica, lirica e sinfonica. Si respira una calma serena, le voci sono sottili, accentate dai sorrisi e dall’ironia di una sobria battuta. È un posto reale, e non per il nome che porta: vi si trova una forza implicita intenta a sedare i turbamenti, le ansie. Una bolla isolante dal frastuono del mondo, dove il mondo se vuole ritrova se stesso. Come in via Giulia di Barolo, in via Verdi c’è una bolla di autenticità che ha vestiti diversi ma uno stesso fluido che la riempie.

Basta spostarsi a un bar vicino per respirare un’altra aria. Siamo serviti da giovani con il viso piatto e la battuta facile. Sono parole inutili per riempire l’imbarazzo, un’amicalità di soccorso per sconfiggere la ricchezza del vuoto. È un pieno a perdere simile a quello che trasuda dalle tv accese che cancellano i pensieri delle persone sole. Una giovialità aggressiva e senza artigli, che gratta con l’enfasi del gatto stupito davanti a un vetro umido di gocce. Un’apertura impaziente e arrogante, che pretende complicità linguistica, conformità, trasmessa con lo sguardo spento e il sorriso storto dall’avidità.

I bar raccolgono persone che entrano per il tempo di una consumazione. A volte lasciano il resto, a volte lasciano storie. A volte le storie non si fermano, scivolano sull’indifferenza del nulla. A volte invece si fermano. Io entro nei bar a cercare storie.



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