È curioso pensare a come passa il tempo. Il progresso fa obiettare di fronte a situazioni che, all’epoca, negli anni ’70, erano senza via d’uscita. Mi riferisco all’avvento della telefonia mobile.
In teoria, ma solo in teoria, la vicenda di Duel non potrebbe più svolgersi con tale “tranquillità”. All’epoca, per far cessare una comunicazione indesiderata era sufficiente passare sopra la cabina telefonica col camion. E finiva la storia.
Certo, in fase di remake selvaggio e di cinema comodo, per ovviare alla fastidiosa presenza dei telefonini, che rendono in grado la vittima di allertare i soccorsi in qualunque momento, si preferisce far capitare la suddetta in un luogo in cui “non c’è campo”.
Taglio netto, una specie di deus ex machina al contrario, o rivolto ai registi e sceneggiatori, che ti risolve l’annosa questione telecomunicazioni.
Ma torniamo al 1971, l’anno di Duel. Tratto da un racconto di Richard Matheson, diretto da Steven Spielberg. Un personaggio, quest’ultimo, che alla regia era una scheggia.
Duel fu girato con pochi soldi, in appena tredici giorni. Quest’ultimo dettaglio comincia a fare la differenza.
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Sotto certi aspetti, mi chiedo come si riesca a metter su un film in così breve tempo. Poi mi sovvengono le solite qualità che oggi sembrano scomparse. Una fra tutte è, dato che esperienze come questa capitano una sola volta nella vita, regista, troupe e attori hanno tirato fuori il meglio, ammazzandosi di fatica, divertendosi anche e fregandosene di ciò che sarebbe stato, dopo.
Insomma, a fare la differenza è l’incoscienza del domani? Può essere.
Altro dettaglio, i soldi. Pochi. Ma talmente pochi che la scena finale fu girata solo una volta, come veniva veniva.
Dite quello che volete, ma quest’arrangiarsi ha sempre quel sapore caratteristico. Ci percepisci il sudore e la fatica, dietro ogni inquadratura. E questo mette di buon umore. Oltre che costringere a far bene.
E poi, ci sarebbero gli errori, vari, tutti più o meno visibili nella pellicola. Spielberg che si riflette sulle superfici lucide e sui vetri, ma non sono camei, il camion che urta la telecamera e la incrina nell’angolino basso. Ma i soldi, sempre pochi sono, e quindi la scena resta.
E, dulcis in fundo, il riciclaggio spietato del girato da parte della casa di produzione, la stessa dell’Incredibile Hulk che approfittò delle riprese della Plymouth Valiant per inserirle nel nono episodio della I stagione, sette anni più tardi. E poi ci si domanda perché Hulk avesse un look persino più antiquato rispetto agli anni ’70.
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La storia è quella di un sorpasso effettuato da David Mann (Dennis Weaver) lungo una strada nel deserto californiano ai danni di un’autocisterna con rimorchio. L’autista del camion se la lega al dito e inizia un duello senza tregua lungo le arterie infuocate tra Los Angeles e San Francisco, una bella scarpinata di circa 800 km.
Fedelissima alla versione cartacea, breve una trentina di pagine, e non potrebbe essere diversamente dato che Matheson cura la sceneggiatura, con qualche episodio extra inserito per arrivare con fatica a poco meno di novanta minuti, ma anche per caratterizzare negativamente il binomio autista-camion, che ne esce persino più incattivito e brutale rispetto alla controparte letteraria. Inutile esagerazione che sottrae l’antagonista a quella dimensione sì violenta, ma almeno umana che egli mostra di possedere nelle pagine di Matheson.
L’autista di Spielberg e di Matheson, in parole povere, rischia troppo e tramuta quello che può essere considerato una passatempo folle in una sorta di guerra su strada, con tanto di vittime casuali. In pratica gli attribuisce una volontà autodistruttiva che non gli appartiene. Ma le scene in questione, comprensiva di cabina telefonica eradicata, sono ben girate e danno molto, in termini di atmosfera.
Il protagonista, Mann, è invece identico, anche nelle sue insicurezze e nella confusione di uomo medio, alla controparte letteraria. Riesce persino un po’ noioso, dal momento che non si seppe rinunciare alla voce fuoricampo, rappresentante il pensiero del personaggio, che discerne per un attimo su questioni morali e sociologiche per poi cominciare a riflettere sulla propria situazione disperata.
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C’è chi ha paragonato Duel a Mezzogiorno di Fuoco, soprattutto i critici europei. In realtà a me rammenta tutt’altro film e tutt’altra ambientazione. Mi riferisco a I Duellanti del 1977, a sua volta tratto da una novella di J. Conrad, The Duel: A Military Story, pubblicata a episodi a partire dal 1908 su Pall Mall Magazine. A parte l’omonimia del titolo, è la focalizzazione sul duello non tanto come pratica militare dal discutibile risvolto onorevole, quanto sull’insensatezza di esso e sull’incapacità assoluta, da parte di coloro che ne sono coinvolti di rinunciarvi e di conseguenza decidere di portare il confronto fino alle estreme conseguenze.
A ben pensarci, la fatalità con la quale Mann viene scelto per questo scontro è pari a quella che costringe D’Hubert a duellare col suo commilitone Féraud.
Ciò che appare evidente, rafforzato anche di più dalla scelta di non mostrare mai il camionista psicopatico, è che l’odio, il senso di prigionia della mente, l’incapacità di compiere scelte razionali e di continuare a battersi secondo regole astruse e non stabilite, alla fine condizionano le scelte del protagonista che più e più volte può decidere di tornare indietro sulla strada percorsa, ma sempre invece avanza quasi attendendo con ansia mista ad angoscia di vedere spuntare la sagoma metallica scura e al contempo familiare del suo nemico, la sua terrificante autocisterna.
Cambiano i mezzi, i tempi, le circostanze, ma la magia del duello rimane intatta. Tirarsene fuori sembra quasi una mancanza di rispetto. O forse è ancora il sortilegio, a parlare.
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