Dopo il cortometraggio I Miss Sonia Henie (1971), Makavejev realizza con W.R. – Misterije organizma (1971) il suo film più arditamente complesso. Nel bellissimo saggio “Il dogmatismo e la tigre di carta”, Bogdan Tirnanić scrive: “(…) lo spunto principale per questo film si trova nella personalità e nell’insegnamento di Wilhelm Reich, lo psicologo sociale tedesco (che soleva definirsi uno storico naturale). Reich morì nelle carceri americane, convinto di esservi finito per mano dei servizi segreti sovietici. Tutti i suoi libri – più precisamente quelli dedicati alla fuznione dell’orgasmo, alla biopatia del cancro, o altri brevi scritti, tratti da opere maggiori, alla scoperta degli organi, la rivoluzione sessuale, dio e il diavolo, la sovradeterminazione cosmica, la psicologia di massa del fascismo, come pure ascolta piccolo uomo! e uomini in crisi – furono bruciati dopo la sentenza del processo “USA contro Wilhelm Reich”, il 23 agosto 1956, e nuovamente il 17 marzo 1960 nell’inceneritore di Manhattan, a New York, sotto il controllo degli agenti dell’amministrazione federale per l’alimentazione, droga e cosmetici. Coloro che hanno sentito parlare del film potrebbero concludere che si tratta di un’opera che si propone di illustrare – secondo le idee di Reich sulla “rivoluzione sessuale” come presupposto di una reale liberazione nel senso sociale – una delle forme del comportamento sociale; in un’altra direzione potrebbero concludere che con la messa in scena e la recitazione – le cui forme presentano dei vantaggi rispetto alle forme della durata naturale della vita, soggette senza residui alla disciplina sociale – si volesse non solo dimostrare la correttezza delle teorie di Reich, ma anche l’effetto sociale positivo dei principi sui quali è fondata la prassi psicoterapeutica di Reich. Il risultato finale di simili conclusioni può essere uno solo: la convinzione che l’ultimo film di Dušan Makavejev sia un tentativo artistico che in modo visionario vede la rinascita rivoluzionaria della società come fondata sulla definitiva rigenerazione dell’esistenza rispetto agli schemi culturali della vita sessuale repressa, senza tener conto di altre circostanze, in particolari quelle sociali, che costituiscono le fondamentali componenti della civilizzazione e dei rapporti sociali e interumani. Ciò ovviamente non è esatto. Lo stesso Reich criticò gli psicanalisti, quando accettò il materialismo dialettico come base filosofica per i propri studi, poiché i metodi clinici da loro usati per le malattie mentali venivano applicati anche all’ambiente artificiale dell’uomo, cioè alla società. Pertanto la prima esigenza fu quella di scoprire le regolarità sociali che provocano le malattie, sia nella società che nell’individuo, e poi con la trasformazioni di tali regolarità, iniziare a curare congiuntamente l’individuo e la società. Dice Reich che “l’amore, il lavoro e il sapere azionano la nostra vita”, ma siccome di solito avviene il contrario, bisogna scoprire le cause che condizionano l’inversione delle forze vitali nelle strutture sociali, a prima vista di tipo non autoritario, e nei suoi padroni (della nostra vita) tirannici. Questo però condiziona l’ulteriore accrescimento della repressione, che non solo colloca l’idea di un uomo libero in un’epoca futura, in pratica immaginaria, ma di fatto la rende anche impossibile. La filosofia (se così si può dire) di Wilhelm Reich è stata per Dušan Makavejev il punto di partenza nella ricerca delle possibili rappresentazioni di una società non violenta, i cui meccanismi saranno orientati a limitare i bisogni primari dell’uomo, che sono il bisogno di amore e felicità. Essendo però la realizzazione di queste strutture sociali praticamente impossibile nell’ambito della cultura esistente, il film di Dušan Makavejev analizza quei fattori di oppressione che hanno uguale peso nei due blocchi del mondo a noi conosciuto, e che stanno preparando le condizioni per l’avvento di strutture totalitarie e repressione. Questo, per quanto possa sembrare strano all’osservatore distratto, si verifica tra l’altro allorquando si reprime con cura la liberazione degli istinti dell’uomo”. Questa lunga citazione ci consente di comprendere due elementi di esegesi fondamentale del film: primo, che la liberazione non è un’esperienza mistica di natura individuale ma è l’esito di un processo sociale; secondo, che l’analisi di Makavejev afferisce ai paradigmi repressivi tanto dei paesi comunisti quanto dei paesi a capitalismo avanzato. Makavejev anatomizza quella perniciosa forma di alienazione (nel processo che muove l’oppressione dalla società al singolo individuo) che è la frattura schizofrenica tra istinto ed intelletto, tra piacere e pensiero. L’ossessione delle strutture sociali nella manovra di inibizione e del controllo della libertà altro non è se non il tentativo grottescamente meccanico affinché non si realizzi quella liberazione interiore che è prologo alla liberazione degli istinti e alla liberazione sociale. Per Makavejev, la repressione della libertà equivale alla repressione degli istinti, propria quando la liberazione dell’eros represso non potrebbe che condurre alla rivoluzione della libertà come strumento spirituale che impedisce la coazione a ripetere dell’oppressione e il consolidamento del dominio dell’uomo sull’uomo, anche quando siffatto dominio è lo strumento necessitato dalla libertà di tutti per la felicità di nessuno. Estendendo allo stalinismo le analisi di Reich sul selvaggio misticismo politico del fascismo, Makavejev avverte sui pericoli concreti di servitù sostanziale che si nascondono nella liberazione immaginaria del socialismo: in assenza di una liberazione autentica dell’uomo, non vi è che la tirannia e l’infelicità del singolo, e ancora – in conseguenza di ciò – l’infelicità delle masse. Makavejev non ironizza sui principi del socialismo, beneamati e idealmente nobili, ma attacca il tradimento di quei principi che il totalitarismo politico ha umiliato sino a farne parabole religiose di narcisistico culto della personalità: l’idea assoluta della liberazione di tutti ha così prodotto il disprezzo per la liberazione del singolo individuo nei suoi istinti e nel suo pensiero. La rivoluzione autocratica del socialismo realizzato ha condotto l’uomo alla privazione di sé stesso, all’incapacità di decidere del proprio destino, al confronto analitico con sé stesso e con gli altri che presiede ogni serio processo di libera individuazione; la liberazione reichiana dell’amore sarà il processo che condurrà dallo spazio interiore del singolo allo spazio sociale delle masse, dall’autodeterminazione finalmente liberata al soddisfacimento dei fini esistenziali primari. Makavejev recupera le origini ideali del comunismo nella loro forma originaria di eudemonismo collettivo, quella teoria della felicità che riconduce il “principio del piacere” freudiano al suo compito rivoluzionario di liberazione contro la civiltà ed il progresso: civiltà che irreggimenta il libero svolgimento della personalità istintuale degli individui, progresso che realizza quei termini di dominio ed alienazione cui finisce per soccombere l’esistenza di ciascuno. Il marxismo come teoria critica, nella rigida disciplina scolastica dello stalinismo, ha violentemente negato il “principio del piacere” nel nome di una felicità generale eternamente procrastinata e nella quale ogni espressione non deve supporre altro che un’utilità sociale disgiunta dal libero piacere in sé. Nel paradigma del potere politico di non equivalere la felicità con la libertà, fino alla persuasione occulta che la mancanza dell’una producesse rovesciatamente l’altra, la liberazione dell’eros paventava il repentaglio di una trasgressione del destino individuale che avrebbe corrotto le fondamenta morali della dittatura sciogliendo la tensione del proprio magma esistenziale. L’ordine e la disciplina sono i parametri sociali entro i quali si compie la sottomissione dell’uomo: il principio del masochismo politico come totale abdicazione di sé contro il desiderio di libertà e l’arbitrio viscerale dell’eros. A sostegno della metafora della repressione sessuale come repressione politica, Makavejev impiega il materiale filmico in funzione antinarrativa e deliberatamente malcerta nella sua geniale diegesi, confondendo 5 differenti blocchi narrativi: 1. la storia vera e propria di Wilhelm Reich con riprese delle sedute terapeutiche tenute dai suoi seguaci 2. brani dal film Pitsi (1946), opera apologetica su Stalin 3. scene di vita quotidiana in Jugoslavia con la storia di Milena, femminista e comunista, assassinata dal pattinatore russo Vladimir di cui lei è innamorata 4. il poeta Tuli Kupfeberg che vaga per Manhattan masturbando tra le mani un fucile giocattolo (insieme ad altri bizzarri personaggi, tra cui un transessuale e il direttore della rivista Screw intento a farsi fare un calco del proprio pene eretto) 5. due belle ragazze jugoslave che percorrono la strada della liberazione sessuale. Proprio il tema della sessualità, ineffabile e contorto per sua natura, consente a Makavejev di sostenere quel disordine creativo, fondato su una autentica colluttazione estetica tra differenti stili, che in fondo è irrecuperabile tanto per l’ideologia comunista che per la controriforma tradizionale. Alla sua uscita, il film (che pure vinse un premio al Festival di Cannes del nel 1971) finì bandito quasi dappertutto: negli Stati Uniti i molti seguaci di Reich accusarono Makavejev di aver tradito la filosofia di liberazione del loro maestro; in Jugoslavia fu vietato per causa dell’invettiva verso l’Unione Sovietica e il regista venne espulso dal partito comunista e costretto a riparare “in volontario esilio” a Parigi.
In Francia, Makavejev prosegue la ricerca stilistica tracciata dalla sua precedente opera e realizza lo scandaloso Sweet Movie1 (1974), girato fra Amsterdam, il Belgio e Montréal.
Al concorso di Miss Mondo 1984, organizzato dalla Associazione Cintura di Castità, vince la candidata canadese che immediatamente viene sposata dal miliardario texano Mr. Kapital. Nel frattempo Lev Bakounine, marinaio superstite del Potemkin, affondato nel 1905, sale sulla Nave Suryival ad Ansterdam, dove conosce e si innamora di Anna Planeta, che ha un passato compagna rivoluzionaria delle Brigate Internazionali. Miss Mondo, sfuggita al texano insieme a Mr. Muscolo, arriva a Parigi dove viene sedotta dal messicano El Macho prima di tentare una purificazione presso la Therapie Komune di Vienna. Sulla Survival, intanto, Anna attira con lo zucchero dei fanciulli e li corrompe; quindi massacra Bakounine. Quando interviene la polizia, scopre una serie di cadaveri e trasferisce l’ex rivoluzionaria in un manicomio criminale. Miss Mondo, disgustata dalle pratiche della Komune, ne esce e viene subito ingaggiata per pubblicizzare la cioccolata.
Tanto laicale quanto misticamente orgiastico nella manipolazione dei propri materiali, il film di Makavejev risemantizza il montaggio dialettico teorizzato da Ejzenstejn attraverso i modelli della decomposizione godardiana e del didatticismo brechtiano (con una fortissima influenza dell’underground americano), realizzando un’opera straordinariamente libera nella quale le ossessioni personali e i simbolismi astratti – pure nei loro eccessi e nel loro compiacimento scatologico per i fluidi corporei – causano un’allucinata denuncia dei regimi comunisti dell’Est come della dittatura del consumo occidentale. Anarchismo, di certo, anche se relato alla storia (e ancora una volta appaiono infondati i riferimenti di prossimità al Movimento Panico) ma soprattutto trasgressione linguistica e sperimentazione del cinema come strumento di trasgressione del canone della consequenzialità diegetica e della norma sociale. L’itinerario di Makavejev è visivamente parossistico e dispersivo, concettualmente narcisista e compiaciuto, grottescamente rovesciato fino alla tragedia (come per le immagini che rievocano il terribile massacro delle fosse comuni di Katyn). Il talento visionario di Makavejev si adopera come assoluta follia narrativa attraverso il genere dell’apologo bizzarro, esasperando il caos del proprio inconscio sino all’incomunicabilità di certe sue oscure allegorie totalmente aliene ad una possibile comprensione: così il significato perde terreno rispetto al significante e le sequenze non sono altro che un’erosione criptica del senso come punto di fuga dalla concentrazione. Già in quel tempo, il film pareva squisitamente datato e provocatoriamente archeologico, un manifesto pletorico e sgraziato di un’estetica selvaggia e terminale nel proprio assunto definitivo di disturbante e grottesca intellettualità: eccessivo in ogni sua parte, detonante nei suoi estremi morali, scientemente inclassificabile nella deliberata infrazione dei tabù cinematografici (come per una sequenza ai limiti della pedofilia) sino al delirio finale, l’opera di Makavejev tuttavia rischia, per la sua saturazione antinarrativa, il senso di una irresponsabile genericità; circostanza certa, persino necessaria, che ad ogni modo e proprio per questo anticipa la successiva erosione dei limiti da parte del cinema exploitation. Come scrivono Stefano Curti e Tommaso La Selva, “Sweet movie è anche un attacco frontale contro un cinema ormai diventato “una gigantesca macchina per modellare la libido sociale” (Felix Guattari): chi si sognerebbe, oggi, di inscenare un episodio di pedofilia come quello che vede la Prucnal spogliarsi e sedurre dei ragazzini per poi ucciderli? O di ospitare, come fa Makavejev, le performance della Comune “La vois lactée” di Otto Muehl2, in una incredibile sequenza caduta sotto le forbici di molti censori (fra cui quelle italiane), in cui Muehl, Otmar Bauer, Marpessa Dawn e altri mangiano, vomitano, si urinano addosso, defecano ed eseguono rituali terapeutici di liberazione del corpo?”. Bene al di là di ogni attitudine derisoria, il film di Makavejev è il suo più amaro e pessimista, il suo più disperatamente libero, fondato com’è su una struttura per frammentazione che trova la sua compiutezza linguistica nella dialettica simbolica tra gli eventi e le cose, così che la teleologia ermeneutica della relazione tra dato naturalistico e dato figurale si risolve in cupa e drammatica fabula. Per il film di Makavejev qualcuno ha parlato di polisemia, ma in realtà più che alla pluralità dei sensi qui ci si trova di fronte al senso come perenne fuga da sé e rovesciamento, certamente ad un livello tale di moltiplicazione del significante da suggerire per converso il monopolio della sua antiragione. Proprio la dialettica, contro coloro che associano Makavejev alla legione degli anticomunisti, è il principio vitale di quel marxismo critico che ha avuto nel cineasta jugoslavo un suo interprete umanista persuaso che il conflitto estetico e la denuncia dell’alienazione avrebbero potuto sopravanzare lo scetticismo istintuale nei confronti della storia in conseguenza dell’umana paura della morte.
Dopo la breve parentesi dell’episodio Politfuck nel film collettivo Wet dreams (1974), Makavejev – che ha pure subito una denuncia per danni all’immagine da parte dell’attrice di Sweet movie – viene bandito dal cinema per sette lunghi anni fino a quando non torna dietro la macchina da presa con il beffardo ma minore Montenegro tango (1981). Da lì, le sue opere si faranno sempre più piattamente mediocri e senza storia sino quasi all’anonimato. La sola eccezione pare essere, nel 1993, il film Il gorilla fa il bagno a mezzanotte. Proprio mentre Makavejev, su commissione del governo della Germania Ovest e della televisione pubblica jugoslava, stava lavorando ad un film sul Muro di Berlino, il Muro cade. Costretto a lasciare la Jugoslavia a causa della guerra civile, dopo esservi tornato dall’esilio, Makavejev muta il progetto della sua storia, e, rinunciando a una parte del budget, a Berlino termina il suo film. Alle scene di finzione, girate quasi tutte per strada e terminanti con un soldato che cerca di vendere la sua divisa sovietica alla Porta di Brandemburgo, Makavejev in sede di montaggio inserisce alcuni spezzoni del film sovietico di Chiaureli La caduta di Berlino e le bellissime sequenze di un documentario sulla rimozione di una immensa statua di Lenin. Il film, nella sua povertà, è una geniale riflessione teatrale (in fondo assai affettuosa) sulla disgregazione del vecchio regime, e ricorda gli esiti corrosivi del suo cinema degli anni ’70. Con gli anni della fine delle ideologie e del trionfo del capitalismo totale sullo stesso inconscio umano, Makavejev finirà per sostenere, nel periodo buio della guerra in Serbia, che sotto Tito “la vita scorreva tranquilla per tutti, il paese era davvero vivibile, pur con tutte le sue contraddizioni”: da parte sua, o amaro rimpianto o realistica constatazione.
1 L’edizione italiana del film venne affidata a Pier Paolo Pasolini e a Dacia Maraini, che eliminarono alcune sequenze scandalose (per impedire che il film venisse sequestrato) e inserirono dialoghi e traduzioni dalle versioni originali delle canzoni affidando i testi alla voce di Giovanna Davoli.
2 Tuttavia Muehl disconoscerà il suo lavoro e definirà la pellicola di Makavejev “decisamente kitsch”.
Beniamino Biondi
Scritto da Beniamino Biondi il set 30 2012. Registrato sotto CINEMA SOMMERSO, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione š’