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Dylan Dog- Il film

Creato il 16 marzo 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Tagliamo immediatamente la testa al toro: non c’è traccia di Dylan Dog nel film omonimo diretto da Kevin Munroe (TMNT, 2007). Il personaggio interpretato da Brandon Routh (Superman returns, 2006) è quanto di più lontano e fastidiosamente differente si potesse realizzare partendo dall’antieroe creato nel 1986 da Tiziano Sclavi.

Il Dylan Dog di Munroe è un borioso palestrato dal discutibile senso dell’umorismo, e il fatto che il mondo in cui si muove sia legato a quello del fumetto più venduto d’Italia, è davvero molto discutibile.

New Orleans al posto di Londra, un tale Marcus (Sam Huntington) che rimpiazza Groucho, e tante altre piccolezze che potranno sembrare enormi mancanze al fan italiano, che pecca di provincialismo, sono solo il frutto di un lavoro di adattamento cinematografico, ci assicura lo stesso Munroe

Ovvio, insomma, che, trasportando Dylan Dog dalle pagine in bianco e nero del fumetto alla pellicola, qualcosa sia andato perso o sia mutato, ma se la somma di questi “qualcosa” arriva a dare come risultante la più assoluta divergenza tra il personaggio e il suo adattamento, la cosa inizia ad essere meno ovvia e di certo più spiacevole.

Il Dylan Dog dello schermo va ben oltre il “liberamente ispirato a”, sembra esser stato ricostruito con strana ironia, cercando di rovesciare e stravolgere ogni punto fermo che, nell’arco di venticinque anni, Tiziano Sclavi e gli altri autori della scuderia Bonelli sono riusciti a mettere insieme per strutturare un personaggio completo e riuscito.

Non parliamo, ovviamente, solo di particolari non importanti come il maggiolone che da bianco diventa nero, per motivi di diritti d’autore, ma di comprimari e antagonisti che fanno parte della storia della serie a fumetti e che sono stati completamente tralasciati all’interno dell’adattamento cinematografico (l’ispettore Bloch, ad esempio, o dell’eterno rivale Xabaras).

Inoltre, il Dylan Dog cinematografico viene calato in una storia davvero tra le meno riuscite di tutto il panorama dei teen horror movie (gruppo a cui il film appartiene per evidenti affinità di intenti): per andare incontro alla vastità di presenze e creature affrontate dall’indagatore dell’incubo all’interno degli albi, Thomas Dean Donnelly e Joshua Oppenheimer, gli sceneggiatori del film, hanno ben pensato di raggruppare squadroni di vampiri, zombi e licantropi, e di schiaffarli tutti insieme ad infestare le strade di una grottesca New Orleans, città liminale, ai confini della realtà, dove è possibile comprare del sangue di vampiro e usarlo come droga in discoteca, o sostituire parti anatomiche andate perse, recandosi in un apposito discount per zombi.

Per non farsi mancare nulla, Munroe e i suoi decidono di inserire per il gran finale anche un enorme demone alato. Il Dylan in questione ha davvero un bel daffare, soprattutto partendo dal presupposto che di propria volontà avrebbe in realtà abbandonato il ruolo di mediatore tra le bande rivali di non-morti (e non quello di indagatore dell’incubo), per mettersi a scattar foto a mariti fedifraghi.

Per contrastare lo scontento che sembra aleggiare tra le creature della notte che iniziano a farsi la guerra per entrare in possesso di un misterioso e potente manufatto, Dylan Dog dovrà metter mano al suo “famoso” armamentario: “Non ci serve un piano, solo pistole più grandi!”. E allora, nel più “assoluto rispetto” per il personaggio da risistemare, ecco l’indagatore che cerca di impressionare pubblico e non-morti con fucili, nocchiere d’argento, proiettili di legno (contro i vampiri) e altri bellissimi gadget.

Non serve tirar le somme: Dylan Dog è un mediocre film e, ancora peggio, una pessima trasposizione.

Sul caso lascia sgomenti la posizione del clan Bonelli e dello stesso Sclavi (che il regista omaggia nel film intitolando loro… due vampiri), che avrà pur saputo di questo adattamento (se non altro per questioni di vendita di diritti d’autore), ma nonostante il film su Dylan Dog sia stata una realtà più volte messa in cantiere, sembra vogliano mantenere il più assoluto riservo sulla faccenda, forse non riconoscendosi in una trasposizione troppo “al ribasso”, forse per un po’ di senso di colpa verso il fedele pubblico di lettori.

Luca Ruocco


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