"Non sono certa di poter distinguere la smemoratezza bella di chi si abbandona al presente sino a perdere la facoltà di possederlo come ricordo, dalla smemoratezza che spazza via tutto ciò che è troppo brutto o complicato."
Helena Janeczek - Just Like a Little Girl
Il mese scorso è uscita per Nutrimenti una raccolta intitolata "Dylan Skyline". Questo skyline ritaglia uno spazio di cielo, ogni racconto prova a inserirsi in un cantiere narrativo infinito che si chiama Bob Dylan. Non si tratta di aggiungere, ma di scoprire in quanti modi diversi questo personaggio è arrivato a contaminare l'immaginario di così tante persone. Come nell'antica fiaba, un elefante viene presentato al cospetto di sei ciechi, incaricati di descrivere l'animale al re di turno. Ognuno si concentra su una parte sola del pachiderma, convinto di riconoscere quello che ha toccato: le zampe sono colonne, la coda una fune, la proboscide un ramo. Solo mettendo insieme tutte queste sensazioni, forse, si può arrivare a capire la forma dell'animale.
Nell'anatomia di questo libro si possono trovare un fratello più grande tornato da Parigi nel cuore della notte, un palco che diventa campo di battaglia, un rapimento ad opera di fanatici dylaniati. Dodici autori per dodici racconti, ognuno con un carico diverso di colori e riferimenti. Quando la puntina scorre verso l'ultimo solco, sulle note di una ballad collettiva, ci si rende conto che le tessere di questo puzzle hanno disegnato una nuova linea nel proprio, personalissimo Dylan Skyline. Ed è bello scoprire che tra queste pagine si compie una stratificazione di tutte quelle immagini che hanno legato la nostra storia a quella di Dylan.
"Se c'era qualcosa che dovevo imparare da ragazzo, più che a scuola, l'ho imparato ascoltando la voce di Bob Dylan," ha detto una volta lo scrittore Daniele Benati. Per molto tempo ho pensato che l'effetto esercitato dalla potenza di Bob Dylan avesse i tratti di un'autorità invisibile. Poi qualcosa è cambiato, la percezione è sfumata di nuovo verso qualcosa di diverso, una percezione simile a una giusta intuizione, alla sensazione appagante di un'inspiegabile vicinanza tra le cose che ascoltavo e l'esattezza con cui riuscivano a ricomporsi nella mia mente. Dylan Skyline, con la sua polifonia, riesce a catturare questa intuizione, diventando uno stimolo per fare nuovamente i conti con il cielo.
Non finisce mai.
---
Hai presente quei libricini da Autogrill col giorno del tuo compleanno? Ecco, in casa ne avevamo tre, ognuno con la sua data. In fondo, tra le ultime pagine, c'era una Hall of Fame coi nomi dei personaggi più celebri nati proprio in quello stesso giorno. Il 24 maggio c'era Dylan. Il gioco delle cose in comune, vite minuscole paragonate alle vite dei "grandi", a tutti è scappato di farlo. Adesso, se proprio voglio fare uno sforzo, mi viene in mente che le analogie sono una buona scusa per pizzicare i ricordi.
Mi ricordo un uomo che aveva deciso di cacciarsi nel petto un sogno, un sogno silenzioso, tanto visibile quanto negato. E poi ricordo un uomo che aveva deciso di cacciarsi nel petto un segreto, il suo segreto, lo scheletro di una maschera che forse non avrebbe mai lasciato cadere. Per prima cosa è stato l'uragano, la storia di un altro uomo, uno finito in prigione senza nessuna colpa. Conoscevo una storia molto simile, l'avevo vissuta e non avevo mai più dimenticato. Era la storia dell'uomo a cui era stato regalato il libricino "Nato il 24 maggio", lo stesso uomo che poi mi avrebbe regalato la chitarra su cui avrei suonato gli accordi dell'uragano. "Scriverò la tua canzone", gli avevo annunciato una volta in macchina. Lui diceva che se lo scenario fosse stato differente, se quei cognomi e quelle montagne avessero avuto un altro accento, la storia sarebbe diventata una sceneggiatura, un thriller da seconda serata. Potevo provare a scriverla, quella canzone, se ci tenevo. Non sono stato in grado.
Poi ho scordato tutto. Come quei due uomini nati lo stesso giorno, con dieci anni di differenza, avevo iniziato a cacciarmi nel petto un sogno e un segreto. Avrei incrociato nuovamente i loro sguardi, sovrapponendo quello del ragazzo di vent'anni condannato a essere un simbolo con la sua musica e quello di un uomo costretto a letto, col suo segreto ormai svelato e disteso al vento dei rancori. E per parlare del vento, tenevo sempre due armoniche in tasca, alternando le chiavi e incrociando le loro note in un addio. Tutto quello che sarebbe arrivato dopo, non ero pronto per quello. Seppellito il segreto e il sogno, avevo finito per seppellire anche la mia testa, lasciando che tutto il resto andasse a sbandare, prestando ascolto solo a un ritornello ossessivo: "Dovrai imparare per bene la tua canzone prima di iniziare a cantarla."
Ci si innamora degli spettri, delle loro bocche da cowboy, dei loro occhi malinconici. Ricordi accumulati su cartoline indirizzate agli scherzi del destino. È una storia, te la scrivo confusa come un sogno, ma so che hai capito. C'era anche una ragazza in questo sogno, una ragazza nata in primavera. Io, manco a dirlo, ero nato troppo tardi. Facevamo l'amore in macchina con Hard Rain. E poi mille sigarette accese a Milano, una notte intera ad ascoltare soltanto Bringing It All Back Home. Giacche di pelle e Isis.
"Se ci pensi lui appartiene proprio al sogno - a un sogno ormai collettivo, come ha capito Haynes - e nei sogni non c'è mai quel giudizio che lui sospende sempre, a favore delle storie." Quel 24 maggio me ne stavo seduto in un cimitero di provincia, rigirando tra le dita una fiaschetta che avevo deciso di portargli per inscenare un brindisi d'auguri. Non sarei più tornato a fargli visita, anche se non avrei mai più smesso di cercarlo. Risposte da nessuna parte, nel vento neanche a parlarne.