Una sedia nello spazio e lui, su quella sedia, a dimenarsi. Le sue mani tremano, i suoi polsi cercano con ostinazione la fuga, il suo torace si espande, come gas. Si chiamava Libero, e qualcuno continuava ancora a chiamarlo così, ma la sedia lo stringeva e costringeva in quell’ossida ferraglia, insieme al suo nome. Il pazzo rideva, al solo pensarci, rideva. Il destino gioca, ma solo l’uomo vince e lui aveva perso, perso contro tutti, anche con se stesso. Di li a poco sarebbe stato pervaso dalla corrente, carbonizzato come suo padre, dalla stessa sedia, ma più di suo padre, lo spazio, e la sua ammirevole solitudine ne avrebbero celebrato il passaggio. Requiem degl’astri dunque, la luce viaggia al buio. Intorno il nulla, intorno tanti piccoli sistemi, ne ricordava qualcuno visto su qualche vecchio libro di scuola, solo, adesso, niente immagini. Il tempo si perde, lui volteggia, strizza gli occhi, si dimena. Libero, che nome ironico; voleva guardare il sole da vicino e a modo suo c’è riuscito, senza immagini.
Tirato su da un razzo, spedito ben oltre la magnetosfera, avvolto in una bandiera dal tricolore opaco, nel sonno, ora viaggia in orbita.
Non sente nulla.
Privato dell’ossigeno si afferra alla vita, tenta la sorte, il suo moto continua, si scuote, forza i legacci, libero vaga nello spazio in compagnia di una sedia. Non cerca aiuto, non ha tempo per le domande, il timer segna tre minuti, ancora tre minuti. . .
e allora inarca la schiena, morde il paradenti, serra la mascella, e vorrebbe disfarsi degli elettrodi impiantati sul suo ossuto cranio rapato, ma c’è il casco a tenerli ben saldi, Libero ha bisogno delle sue mani. Marte e le sue due guardie sono ormai lontane, Venere invece, sembra essere così vicina, quasi imminente, la guarda intimidito, si sofferma, non ha satelliti, venere è sola, senza ricordi. Il timer continua a rubargli secondi, mancano poco più di due minuti e il nostro vecchio si incanta, e come dargli torto, non capita a tutti, ne tutti i giorni, di avere occhi pieni come i suoi, ingordi, si cibano, lui prova, con eccelsa tenacia a indirizzarli sui suoi legacci, cerca, tenta, ma nulla. Libero non ha tempo, dovrà fare a meno degli occhi. Due minuti ancora, forse non basteranno, inizia a soffrire il freddo, inizia a sentirlo scavare, dentro, penetrare la pelle per attanagliargli le ossa, le strozza fino a spezzarle.
Fa male, diavolo se fa male. Il dolore lo accende, come fuoco brucia, Libero scalda lo spazio, e, a poco a poco, si consuma. Sua madre lo picchiava spesso, suo padre, quando non si rivaleva su di lui, puniva sua madre, il nostro affezionatissimo non ha mai bruciato una lucertola, il nostro vecchio non le ha mai suonate a nessuno. Il timer spacca il minuto, lui continua a ruotare, descrive un orbita nell’orbita, si avvicina a Mercurio, adesso il flusso di plasma lo travolge, libero arde, e perde il senno, nel dirocco di Nettuno tende al sole, così ostico, intrattabile, così sporco. La sedia non da cenni di cedimento, se non lo ammazzerà la corrente lo farà il sole; trenta secondi, lui desiste, si ferma, s’arrende, mentre Venere si allontana. Punta al sole ora, mancano dieci secondi, in un modo o nell’atro dovrà morire, questo la sa, ma ora in testa gli guizza come una carpa un pensiero, non sarà una sedia elettrica ad abbrustolirlo, libero punta al sole. Otto secondi per essere travolti da un masso roccioso, due secondi per forzare la struttura, scioglie i polsi, un secondo, gli elettrodi sono ancora in testa, time-out. La corrente parte, gli elettroni attraversano quell’intreccio insolito di mogano e rame, per un attimo ne viene raggiunto, quand’ecco che s’affranca. La sedia esplode, libero ha smesso di ruotare.
Fuori pericolo, adesso nuota. Fa rotta verso il sole.
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