E ho pensato, dentro a quel bar dove alla fine i suonatori di non si sono presentati, ho pensato Dio mio guardaci, non abbiamo più niente da raccontarci. E il nodo si è stretto alla gola, e mi è parso di affogare nella birra amara che buttavo giù contro voglia, a sorsi caparbi, guardandoti mentre tu non mi guardavi, mentre non guardavi niente, perso in chissà quali pensieri, o rammarichi per suonatori assenti, per feste finite e lanterne ammucchiate in un angolo.
Con il respiro corto un po’ ti guardavo, perché capissi e mi salvassi, un po’ giocavo con i capelli a coprirmi la faccia, con gli anelli alle mie dita, con il vetro appannato del bicchiere per sembrare più distratta che disperata, per nascondere a sguardi estranei la mia voglia di gridare.
Dio, non abbiamo più niente da dirci. Se fossero venuti i suonatori, se avessero spostato le poltrone negli angoli per lasciare spazio per ballare, se avessero acceso le grandi lanterne bianche sulla terrazza e poi sul pontile, fino al pelo dell’acqua, se avessero gettato giù le lampare, se ci fosse stata gente e musica, se avessi potuto alzarmi e mettermi a ballare, sfiorando occhi e sguardi sconosciuti, cercando come sempre i tuoi, se avessi potuto strizzarti l’occhio in mezzo alle teste, e venirti vicino e accarezzarti con i fianchi e con le mani, e ridere e baciarti, non l’avrei scoperto, non l’avrei pensato, mai, o chissà per quanto, che non avevamo più niente da dirci.
Ho finito il mio bicchiere con le mani gelate e gelo nella pancia, hai detto che vuoi fare, ho detto andiamo via. Andiamo via, anche se doveva essere la nostra serata dopo tanto, anche se mi sono messa i tacchi alti e la camicia nera di seta e lo smalto alle unghie, andiamo via perché i suonatori non sono venuti, e ho troppa paura di scoprire per quanto tempo può allungarsi il nostro silenzio.
Fuori si era alzato un vento freddo di bora, eppure ho cominciato a scaldarmi, aggrappata a te, per le strade. Per le strade, essere parte di un qualcosa in movimento, di un palpitare di pensieri e passi e amori e rabbia e risate e solitudini intrecciate, ritrovare le parole, di colpo, dove sono sempre state, parlarti dell’Africa, senza nessuna ragione o appiglio, come siamo finiti a parlare dell’Africa?, non ricordo, forse il tuo fianco caldo contro di me, dirti delle stelle in Africa che non sono come qua, nemmeno un po’. Vorrei che capissi che devi andarci in Africa, non è un capriccio, quel cielo lo devi vedere, è come trovarsi un lenzuolo troppo vicino alla faccia, è un senso di affanno, quasi, trovarsi sopra al naso quelle stelle enormi che non ho mai imparato a riconoscere.
Mi mostri il Grande Carro, come la prima volta che uscimmo insieme, come ogni volta che parliamo di stelle, tu mi mostri il Grande Carro e mi dici vedi, è là, e io sì, lo vedo, ma non lo so che non lo saprò mai ritrovare.
Parlare in macchina, sul sottofondo di una cassetta di Ligabue di chissà chi, una cassetta, sì proprio una cassetta, trovata nel portaoggetti di questa macchina in prestito.
Spegnere il motore e restare a baciarci, e ridere dicendoci, peccato, davvero, che stasera i suonatori non siano venuti.