E così, siamo in guerra. Forse. Io mi sono sempre definito un pacifista. Cioè, ci tengo a precisare, se dovessi scegliere fra la pace e la guerra, sceglierei un milione di volte la pace. Senza pensarci. Però so anche che ci sono cose che vanno fatte. Voglio dire, che è facile pensare che la guerra è brutta. Cazzo, bell'analisi politica, la farebbe anche il mio nipotino di cinque anni. Ci si ammazza fra esseri umani, voglio proprio vedere, a parte qualche psicopatico in divisa, chi la troverebbe bella. Però penso anche, in questi casi, a un sacco di ragazzi della mia età, e anche più giovani, che nel '43 pensavano che la guerra fosse brutta (e loro avevano il diritto di pensarla, perchè ne portavano le cicatrici sul corpo e nell'anima) e però sapevano anche che Mussolini non se ne sarebbe andato con una parola gentile. E hanno fatto una guerra brutta, davvero brutta, sperando che noi, loro nipoti, non fossimo costretti a farla. L'hanno fatto perchè andava fatto. E io, tutto sommato, continuo a pensare che si viva meglio in un'Italia senza Mussolini. Adesso, provate a pensare di essere un ragazzo libico della nostra età. Qualche tempo fa sei sceso in piazza, perchè sentivi che qualcuno ti aveva rubato il futuro, che finchè fossi rimasto a casa tua non ci sarebbe stata alcuna speranza per te. Hai magari una laurea, magari una moglie, magari già dei figli (in certi paesi si usa così) e sei incazzato. Incazzato come una iena. E senti che qualcosa va fatto. Così, un paio di mesi dopo la laurea in ingegneria, gli eventi precipitano e ti trovi con addosso una mimetica. Ti senti ridicolo, vestito con quella vecchia mimetica strappata, e non sei molto sicuro di sapere come si usa un mitra. Lo impari, piano piano, forgiandoti nel dolore di vedere i tuoi amici massacrati dalle truppe regolari, meglio addestrate, gente che spara senza pensarci troppo. Gente che spara perchè la pagano e non perchè un giorno è scesa in piazza urlando "pane e libertà." E ora che qualcosa si è già rotto dentro di te, che sai che non potrai mai più essere lo stesso, sai anche che, come quasi tutte le rivoluzioni, anche la tua è destinata a finire nel sangue. Il tuo sangue, nella fattispecie. Ogni volta che ci pensi non riesci a non sentirti un formicolio strano nelle vene del collo. Ti immagino passeggiare per i viali di Bengasi, fra bandiere rossoneroverdi già strappate e consunte, facendo inutili giri di pattugliamento mentre pensi che, da un momento all'altro, potrebbe venir giù la bomba con il tuo nome scritto sopra. L'unico pane e l'unica libertà che il tuo paese può garantirti. Se chiudi gli occhi, vedi un carcere e una bandiera verde e un tavolo con le cinghie per legarci una persona. Li riapri.Ti immagino guardare a nord, verso il mediterraneo. Con invidia. Con rabbia. Con speranza. Aspettare che i potenti abbiano deciso i loro giochi - che abbiano deciso da chi compreranno, truffandolo, il petrolio. Aspettare che il tuo prossimo nemico venga a salvarti. Ma tu sei vero, tu senti la strada sotto i piedi. Loro no, loro sono solo nomi nascosti dietro un completo che costa quanto il tuo stipendio di dieci anni. Però, forse, il pane. Però, forse, la libertà. Ma no, a chi credono di darla a bere. Ti immagino rinunciare a pensarci, rinunciare a capire cose che in realtà, dentro di te già sai. E ricominciare a guardare la strada, desiderare di sparare a tutte quelle luci, che da un momento all'altro potrebbero diventare un'autoblindo, una torcia, un'esplosione. Vuoi il buio, ora. Vuoi potre chiudere gli occhi, per dormire. Ma resti lì, a guardare la strada. La strada non risponde. L'immobilità pesante della notte africana. Aspettare.
Pubblicato da JonLivingstone | Commenti Tag: venire meno al mio egocentrismo