Un Bignami che volesse riassumere la storia dell’approvazione della prima legge italiana sulle unioni civili, un domani, scriverebbe (e non sarebbe possibile impugnare una singola riga del discorso) più o meno così:
“All’inizio del 2016, sotto il governo Renzi, l’Italia approva, ultima in Europa, una legge sulle unioni civili che, pur non riconoscendo il matrimonio, si allinea alle migliori europee in materia. Pur di far passare il provvedimento in tempi brevi, il governo vincolerà l’approvazione della legge al voto di fiducia, uscendo vittorioso”.
Nello stesso tempo nulla, a meno di una serie infinita e necessaria di distinguo, di questa formula in sé e oggettiva e asettica corrisponde per davvero a verità.
La verità di come è stato gestito il dibattito sul DDL Cirinnà fin dagli esordi, la verità di un paese catto-attardato nel quale ancora parlare di sesso scandalizzata, la verità sulla mistica della famiglia, il vincolo sociale all’interno del quale avvengono più violenze, e sulla quale invece si basa l’ipostasi trinitaria di un paese che non ha ancora imparato il significato di sovranità dal basso, la verità di una serie di passaggi che hanno trasformato, insensibilmente ma in maniera irreversibile, un giorno che non può che essere di festa (perché il passaggio da coinquilini a conviventi è comunque sostanziale, comunque si voglia girarla) nella costante quanto fastidiosa sensazione di una carta perennemente forzata.
La ‘povna prova a spiegarsi meglio, ché dopo un paio di giorni di meditazione le idee ce le ha abbastanza chiare (nel frattempo, si è pure letta la legge, che resta piuttosto buona pure senza la fedeltà e la step-child adoption).
Partiamo innanzi tutto dal dato della sua posizione specifica: in un sistema paese ideale, per la ‘povna, le unioni civili costituiscono un combinato leggero e ad hoc di leggi di tutela che servono, in una nazione priva di common law, a garantire dei diritti a protezione dei contraenti; non sostituiscono il matrimonio, e nemmeno ci assomigliano, servono semplicemente a sottoscrivere una serie di cautele chiamando a garanzia lo stato. Una visione del genere (che può contenere, ma non esaurisce, legami di tipo uxorio, non importa tra quali sessi) presuppone chiaramente, in una dimensione laica come quella in cui si muove la ‘povna, l’esistenza di un istituto matrimoniale non discriminatorio, e cioè aperto a tutti, a prescindere dal sesso dei contraenti. In questo modo, di fronte a una autentica uguaglianza dei diritti matrimoniali, l’istituto dell’unione civile assumerebbe finalmente una sua autonoma (e interessante) valenza giuridica e sociale. Appare chiaro, peraltro, che, mentre le unioni civili hanno uno scopo di tutela, come si è detto, il matrimonio (almeno nell’ambito del diritto italiano) ha una funzione, anche, marcatamente di progetto, sancita peraltro anche dalla Costituzione (art. 29); e potrebbe essere questa una motivazione più che comprensibile per determinare la scelta di una coppia (non importa se omosessuale o etero) a non volere mettere in campo un progetto senza per questo voler rinunciare a richiedere, davanti allo Stato, una tutela.
Che questi dati di partenza siano, in sé e per sé, abbastanza ovvi, dovrebbe essere scontato; non avviene però così in un paese, il nostro, nel quale l’ignoranza conclamata del diritto dilaga peggio della peste. Si tratta di un portato grave (e spiegabilissimo, andando a vedere i curricoli nazionali delle scuole primarie e secondarie, dove questa materia latita da tutti i licei, cioè dalla formazione di base di coloro che andranno a completare degli studi universitari e dunque, si pensa, a occupare posti cruciali nell’amministrazione del paese), che aiuta a comprendere come sia possibile che anche persone di consueto non stupide facciano, nel seguire dibattiti che si basano su una minima consapevolezza della legge, una fatica tremenda. L’abitudine a non distinguere i piani, a sovrapporre tutto, a confondere morale e giudizio, sanzione e penitenza, riflessione e precedente, così come la tendenza a considerare il Diritto qualcosa di maiuscolo, ipostasi divina di una Legge sempiterna, anziché ciò che è e per cui nasce, e cioè un terreno di compensazione e di compromesso, come tale in evoluzione, e soggetto a interpretazione a seconda di atti e attori in causa, creato dall’uomo e per l’uomo, per tutelare la relazione sociale, si rivela così uno dei peggiori mali della società italiana.
Sarebbe bastato un ottavo di questa consapevolezza, nelle settimane scorse, per trasformare da gallinaio a tempio del buon senso la riflessione sulla step-child-adoption: perché la norma che prevedeva per uno dei due contraenti l’unione civile la possibilità di adozione volontaria del figlio naturale del proprio partner, era, in ogni evidenza, solo e in esclusiva tutela del soggetto più debole, vale a dire il figlio stesso. E infatti, step-child o non step-child, è in questo senso che piano piano, come è ovvio, si esprimeranno nei tribunali i giudici sui casi singoli, con ciò arrivando, come per la legge 40, alla demolizione di questo paradosso dall’interno per una via semplicemente più lunga, costosa per la società tutta, e giurisprudenziale.
Su quali siano le ragioni che abbiano spinto il Movimento 5 Stelle a non votare il cosiddetto “Canguro” la ‘povna non ha qui interesse a soffermarsi. Si tratta di una decisione suicida, impolitica, miope (in tutto e per tutto simile al comportamento tenuto per l’elezione di Mattarella, e ciò avrebbe dovuto essere campanello di allarme); ma alla ‘povna, che non li ha votati e sa bene (per le ragioni di grandezza del diritto con la minuscola celebrato poco sopra) quanto poco valgano, tutto questo non importa.
Importa invece la decisione di Renzi, di passare, una volta incassato il veto dei Cinque Stelle al grande salto, alla scelta di porre la fiducia sul provvedimento, stralciando le adozioni (la parte più critica per il cattolicesimo ortodosso) e affidandosi ad Alfano. L’accordo si trova, guarda un po’, in quattro balletti. Nel mezzo ci finisce pure la questione dell’obbligo di fedeltà, che dalle unioni salta. E poi, in un baleno la fiducia è posta, si vota, la legge (che è, la ‘povna lo ripete, a scanso di equivoci, una buona legge sulle partnerships) passa.
Eppure, per tutti loro laici, che aspettavano questo provvedimento da vent’anni, il senso è che non ci sia nulla da festeggiare.
E’ dunque sulle ragioni di un perché che si appuntano, in conclusione, le riflessioni della ‘povna, anche se molte cose le ha anticipate, di fatto, attraverso gli argomenti.
Una carta forzata, ha scritto al principio, e ora lo ribadisce. Il senso più profondo parlando della Cirinnà per la ‘povna è stato questo: l’urgenza, fastidiosa di essere costretta dagli eventi a pensare, fare, dire cose necessarie ma che tuttavia esulavano dai suoi interessi. Difendere la step-child adoption, consapevole tuttavia che la questione dell’utero in affitto pone tutta un’altra serie di riflessioni, sulle quali voler discutere è legittimo (ma che non riguardavano, checché se ne sia detto, il provvedimento); arrabbiarsi per l’abrogazione dell’obbligo di fedeltà, quando, per gli ottimi motivi illustrati sopra, in un sistema senza discriminazioni (nel quale cioè il matrimonio valga per tutti) che in una unione civile non ci debba essere obbligo di fedeltà è più che ovvio (perché la fedeltà si pone non nell’area della tutela, ma del progetto); essere triste (per il come, per i toni, per la vittoria sfacciata del reuccio piglia-tutto) quando viene approvata una legge che la fa finalmente sentire un po’ meno privilegiata.
E invece no, l’ennesima mossa del cavallo (ed è sempre lei, l’unica che Renzi conosca) ha funzionato anche questa volta, e incorona la vittoria politica del putto di Firenze a mani basse. Voti incassati al futuro, voti (quello della destra liberal) sottratti ad Alfano, con destrezza, altri (quella della destra catto-conservatrice) allontanati dall’alleato di ora, in previsione elettorale futura; Cinque Stelle gabbati come sempre e con loro (in altro modo, ma non meno devastante) tutta la sinistra italiana.
Finisce così questa storia, e l’Italia si ritrova per la prima volta una (buona) legge; eppure la voglia di festeggiare è pochissima, perché i dati oggettivi e quelli della percezione soggettiva non sono mai stati tanto divaricati. Nello stesso tempo, qualcosa si è mosso, e questo, al netto di tutte le indignazioni (che politicamente non servono a nulla, e giuridicamente sono per fortuna irrilevanti), significa che la battaglia è cominciata.