Come tutti coloro che viaggiano parecchio per lavoro, tendo ad adattarmi alle situazioni. Quasi sempre, per lo meno.
Da sempre, faccio un’eccezione per i portoghesi al volante. Sono normalmente istanti di terrore puro. Non riesco a capire se sono incapaci o se si divertono per vedere che faccia facciano i passeggeri.
Più invecchio, più propendo per la seconda.
Venerdì scorso credo di aver raggiunto lo stato dell’arte.
Vengo caricata in auto da un tizio direzione aeroporto. Preciso che non c’è nessuna fretta. In parte perchè è vero, in parte perchè so che anche così tenterà di infrangere il muro del suono, figuriamoci se dovesse ritenere che vi sia una qualche urgenza.
Parte, a razzo, e capisco immediatamente che son cazzi. Acidi. Lisbona in centro è tutta un saliscendi. Lui affronta la discesa in terza. Io mi aggancio la cintura. Si volta e mi dice con un sorriso che pare Jack Nicholson in Shining, ‘Em Portugal não precisa’. Lo so, sono io che preciso, stronzo. Non voglio morire. Non qui, perlomeno, non ora. E soprattutto, non in tua compagnia
Dopo aver seminato il panico in Praça Marquis de Pombal, a Dio piacendo, finalmente infila la strada per l’aeroporto. Io darei il mio regno per un travelgum, e il verde della mia faccia ben s’intona al verde del taxi, che, per la cronaca c’ha 540.000 Km (sul serio, in Portogallo è uso comune che i taxi svolgano il loro porco lavoro dal dì dell’acquisto al dì della rottamazione) e a cui mai ovviamente son state rifatte le sospensioni.
Dopo qualche minuto, intravedo in lontananza Portela e mi rilasso. Errore. Avevo rimosso di avere il biglietto di una fottutissima compagnia low cost che parte dal Terminal 2. A 300 metri c’è un cartellone rosso con scritte bianche. Scritte bianche in caratteri oftalmici visibili da Marte pure da un miope senza occhiali. RALLENTARE. CURVA PERICOLOSA.
Ora. In Portogallo, la segnaletica stradale, anche per l’attitudine alla guida dei partecipanti, è raramente allarmistica. Se si son pregiati, è perchè, evidentemente, in ‘sta cazzo di curva che sembra il Tamburello di Imola, se ne deve ammazzato più di qualche.
Il pirla la approccia agli 80 all’ora. Vedo il vuoto oltre il guard rail e l’unico pensiero è:”Ma va te se devo andare all’inferno un venerdì qualunque in compagnia di sto pirla”. Tiene in strada la macchina (ovviamente, se no, non la starei raccontando) e inchioda, letteralmente, trenta metri più in là (essendo il T2 di Portela grosso come il cesso di casa mia).
Scendo. “Teve uma boa viagem, a senhora?”. “Ha avuto un buon viaggio, la signora?” “Muito. Obrigada”. “Molto. Grazie” Sorrido. Come Jack Nicholson. E non gli lascio la mancia.
Giovedì si replica.