Magazine Diario personale

E dimmi che non vuoi morire

Creato il 31 agosto 2015 da Povna @povna

E poi, a un certo punto, è casa. La ‘povna è scesa alla stazione dopo l’abituale cambio di tre treni e tre province, con il viatico della serata con l’amico mostro sulle spalle e tanti messaggi che accompagnavano i binari lungo tutto il percorso. Si è seduta sotto il tasso, ha preso un caffè insieme ai vecchietti e ha aspettato l’automobile familiare, sullo spiazzo. Canta-che-ti-passa, Le Hero e il Signor M. sono arrivati dopo poco, così come doveva essere. Sono passati da casa, hanno lasciato valigie e zaino in mezzo all’erba e sono andati a fare la prima spesa, anche questo come sempre. E la loro settimana è cominciata.
E’ possibile raccontare un’altra volta tutto questo senza ripetere una storia che è sempre uguale e pur diversa? La ‘povna se lo è chiesta spesso, in questi giorni, di amici del nord, condivisione, amore, giochi, cura, cani e gatti, tutti insieme nel paese-che-casa. La verità (una verità di cui ha occasionalmente discusso con BibCan – che si conferma narratario esplicito) è sì e no, e forse è pure questo prevedibile. Perché la perfezione, il privilegio, l’arroganza di essersi trovati, e poi coltivati e scelti non si narrano per definizione, ma si vivono. Che è poi quello che hanno fatto, un altro anno. Su temi e variazioni (perché lo sceneggiatore ama creare un contrappunto), la ‘povna potrebbe parlare di tutto il solito loro che è anche il mondo: la divisione degli spazi comuni, e delle private cucce, i risvegli a scacchiera (che i fusi orari possono essere diversi), la colazione che va lunga (ma in Cantinello, a partire dalle 8, trovi sempre qualcuno a chiacchierare), i pranzi e le cene preparati con quella cura affettuosa che è amore senza fronzoli, le partite a King, e i giochi nella notte, il sole (ma anche la pioggia, perché quando si pecca di ybris – e alla ‘povna, se ci pensa, viene davvero lo spavento – non ti ferma neanche il tempo), gli scambi a Paddington, a croquet, molte e complicate sfide, in cucina come a tennis, l’uscita dal cancello (ma solo per una volta), le passeggiate a raccogliere la frutta, le torte mescolate in greco antico, i compiti tra l’erba; i giochi nuovi, le sere a lupo, tra gli ulivi, mentre la luna cresce, e poi la pizza che impasta una colonna sonora lunga una vita e un anno. Ma sarebbe solo una parte di quel molto che è impossibile narrare.
La ‘povna ha bevuto, di questa loro settimana privilegiata e unica, ogni singolo momento, sgranando nella notte un numero ridicolo di ore sempre più sottratte al sonno, perché non ci doveva essere nulla da mancare. Ovviamente, man mano, ci ha nuotato puntuale ogni mattina le sue 220 vasche, didascalia di ordine tra i pensieri impertinenti, ma non troppo, perché alla fine ha scoperto che non sarebbe dovuto essere il momento di pensare.
Essere dove si appartiene, questo è il senso di un privilegio coltivato orgogliosamente come unico: e infatti i contatti del mondo esterno si sono rarefatti quasi con naturalezza: lei, il suo telefono, l’ha lasciato volutamente altrove, praticamente sempre; BibCan l’ha dimenticato in giro; e così pure molti altri. Ma anche chi per lavoro ha dovuto rispondere presente è stato bene attento a proteggere con incantesimi ben fatti l’ubicazione segreta di questo loro stare. Gli arrivi e le partenze si sono mescolati con una precisione che è facilità e rispetto, perché, in fondo, le cose sono così terribilmente semplici, quando si sta dove si deve e vuole essere. Perciò la ‘povna (insieme a tutti) ha vissuto dove, come, quando, quanto voleva per sette giorni e anche un pezzetto, senza negarsi (quasi) niente. E così, lungo il rosario del rassicurante e noto, le variazioni hanno potuto germogliare con apparente noncuranza, a rinsaldare una catena che rilancia: ciò che protegge (secondo una ovvietà semantica) è anche quello che trattiene.
Il sabato è arrivato, nonostante tutto, tra gli ulivi, insieme a una luna piena (e pazza), ovviamente troppo presto (anche se con una coda di bellezza); e le partenze si sono sbriciolate in un’attesa lunga un giorno (ma che, comunque, un po’, ti salva). E allora, quasi ultima, la ‘povna questa mattina ha rimesso piano piano la sua palla di vestiti ammonticchiati nello zaino, e poi, sciagattata come da tradizione, è risalita sul treno del ritorno, ripiena di pinzi di bestie dappertutto, i capelli a paglia e fieno, con il cloro che li ingromma, orgogliosamente in camicia da notte. I pensieri dondolanti le hanno tenuto compagnia lungo il tragitto, macinando una nostalgia preventiva che è già incagliata nei dettagli. Perché quello che hanno loro, alla fine, è irraccontabile, e bisogna solo dire grazie.
La ‘povna era partita per l’estate con lo scopo di “ritrovare un senso”, aveva detto. Quel senso non l’ha poi ritrovato, a dirla tutta, in molti sensi. Ma, a senso, va bene anche così.


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