Ha ragione il premier Letta, nipote dello zio Cavalier servente, a dire che il ventennio berlusconiano è finito: sarebbe assurdo che continuasse visto che tutto ciò che per cui il tycoon scese in campo con la calza, alla fine si è pienamente realizzato. Silvio voleva la continuazione del pentapartitismo, ossia dell’immobilismo democristiano, coniugato a un nuovo autoritarismo di marca piduista (decisionismo lo chiamavano) e da una caduta di tensione etica e morale che favorisse una classe dirigente ingrassata nel cortocircuito affari – politica.
Com’è noto cercò per mesi il personaggio adatto a costruire questo scenario e solo quando vide che non ce n’erano di affidabili, si decise a scendere in campo in prima persona, sicuro che dopo un’eventuale vittoria nessuno avrebbe contestato seriamente il gigantesco confitto di interessi che portava dentro la politica e che in qualche modo imponeva un’Italia immaginata con occhio sudamericano (di allora). Lo sapeva perché nel Paese non esisteva affatto quella chimera di liberalismo europeo che gli intellettuali conservatori vagheggiavano, Montanelli compreso e del resto la sinistra era stata così travolta dalla dissoluzione dell’Unione sovietica da aver alzato una bandiera così bianca da poter sopportare la prova finestra.
Così cominciò il declino dell’Italia e di quel mondo del lavoro che l’aveva risollevata dopo un precedente ventennio di decadenza sotto mentite spoglie imperiali. A questo proposito sarebbe interessante far notare su un grafico che parta dal 1861 come l’aumento delle lotte sociali corrisponda a quello dell’economia e viceversa, contestando con la realtà le fumisterie liberiste, ma questo ci porterebbe fuori tema. Fatto sta che da allora la presenza di Berlusconi al governo o all’opposizione ha significato l’inizio della lunga marcia verso la precarietà, l’abbassamento dei salari reali, la messa in mora dei sindacati, il declino commerciale, l’aumento vertiginoso dell’obolo vaticano in senso materiale e civile, l’esautorazione del Parlamento in favore della governabilità per decreto, distruzione progressiva della scuola e della sanità pubbliche fino ad arrivare, grazie a un gran commis della bandiera bianca e della livrea da concierge del potere, ovvero Giorgio Napolitano, a una manomissione costituzionale destinata a dare attuazione a questa realtà.
Paradossalmente l’opposizione, spaventata dal potere di Berlusconi senza essere in grado di contenerlo, è stata indotta a fare l’unica cosa che il tycoon non avrebbe fatto: ha pensato di poter uscir fuori dalla sua subalternità legandosi ancor più strettamente all’Europa e in particolare facendo di tutto per entrare dentro Maastricht e l’euro, nonostante la dura lezione del ’92 dove venne dimostrata l’intollerabilità dello Sme per l’economia italiana. In un certo senso quell’ opposizione senza più bussole, ci ha preso per puro caso perché l’errore catastrofico dell’unione monetaria ha in effetti logorato il Cavaliere fino a ridurlo ai servizi sociali. Dall’altro però ha favorito il pieno dispiegarsi del disegno berlusconiano di riduzione della democrazia attraverso l’impoverimento e l’umiliazione del lavoro che oggi è patrimonio comune della maggiori forze politiche. Dunque è morto Berlusconi, viva Berlusconi. E anche se è bene non dare per morto il gatto se non l’hai nel sacco, politicamente è vero: Berlusconi è finito proprio perché ha avuto uno straordinario successo nell’imporre la sua idea di Italia e di società ed è diventato inutile e anzi controproducente con i suoi eccessi senili. Alle esequie di un Paese vivo una volta, meglio un compunto necroforo, senza prefiche, tanto Napolitano pensa anche a quella parte della recita.