8 ottobre 1984. Dal mio diario.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, seduti sulla panchina, leggermente discosti. Lucia raccolse da terra una foglia e, osservandola, disse: << Guarda com’è brutta >>. << Già, ma sicuramente una volta era bella >>, risposi. << Bisogna saper individuare la bellezza in ogni cosa, anche se risale al passato; in tutto ciò che ci sembra importante sarebbe necessario riconoscere i germi della sua fine >>.
Non pronunciai proprio quelle parole, la frase che riportai sul diario la sera stessa non suonava esattamente così, ma l’espressione i germi della fine la ricordo perfettamente. Saper riconoscere i germi della fine componeva un pensiero che facevo spesso a quei tempi, i tempi del liceo appena terminati. Mi trovavo in una specie di limbo, stavo cominciando a frequentare l’università ma il cordone ombelicale che mi teneva unito a luoghi e persone si manteneva saldo. Anche la piccola storia con Lucia, nata durante la preparazione dell’esame di maturità, contribuiva. O almeno aveva contribuito. Fino a quel pomeriggio sulla panchina di Via Cernaia.
Lucia annuì, accarezzando lievemente la superficie rugosa della foglia. Come il nostro amore, era caduta ancora verde da un albero al primo sentore d’autunno. << Somigliamo a due ubriachi che smaltiscono la sbornia >>, dissi con un sorriso a mezza bocca, tanto per rompere la tensione nell’aria. Provare a fare dell’umorismo quando l’atmosfera si faceva pesante era un’abitudine, negli anni capii che non sempre si trattava di una buona idea. La verità, comunque, era che entrambi avevamo timore di parlarci, forse per non mortificarci.
<< Mi dispiace >>, sussurrò alla fine lei con voce vacillante. Misurai le parole: << Anche a me… però ieri ho capito una volta per tutte che non potevamo fare più nulla. Salviamo il salvabile, avevi detto, mi pare che ora non ci sia più niente da salvare >>.
Rileggendo quanto scrissi allora mi viene da sorridere: parlavo come un uomo adulto, non proprio come un adolescente di diciannove anni, ma lo facevo per non cedere al dispiacere. E poi era la prima volta che lasciavo una ragazza – o, meglio, che lei lasciava me. D’altra parte Lucia, sia pure per un paio di mesi appena, era stata la mia prima vera ragazza.
Lei convenne, poi ricadde il silenzio. Entrambi guardavamo davanti a noi, seduti sul bordo di quella panchina come se scottasse, come se dovessimo alzarci di scatto e scappare via di corsa, piuttosto di leggerci le lacrime si gonfiavano nei nostri occhi. A dire il vero avevo l’intenzione di mostrarmi più aggressivo: << Non ti amo abbastanza per stare con te >>, aveva pur detto qualche giorno prima, ma ora mi pareva stupido rimproverarla per qualcosa di cui, me ne rendevo conto, non aveva colpa. Mi faceva persino pena vederla lì, la testa china. Mi facevo pena anch’io, ancora una volta vittima di un’illusione come un’arma a doppio taglio. Sì, pensai, stavo scontando i momenti felici vissuti con lei e che non sarebbero più tornati.
<< Credo che ci vorrà parecchio prima di smaltire la sbornia >>, ripresi con tono sconsolato guardando le crepe del terreno, chiedendomi chi di noi due stesse facendo la figura peggiore. Proruppi quindi tutto d’un fiato: << Ieri, a quella dannata festa, mi sono comportato da scemo. Ridevo, scherzavo, invece avevo solo voglia di piantare lì tutti e andarmene. Fingere è un’autodifesa, ma perché? Che sciocchezza fare finta che tutto vada bene quando gli amici chiedono di te e me. Proprio ieri sera Raffaella mi diceva: ci vediamo come al solito davanti a scuola… quando oggi potrebbe essere l’ultima volta che sono venuto a prenderti… >>. Lucia m’interruppe. << No, non vorrei che accadesse questo. Ti voglio ancora bene e desidero continuare a vederti, a uscire insieme, quando sarà possibile >>. << Ti voglio bene anch’io, sebbene non più come prima… >>.
Mentivo sapendo di mentire, ovvio, l’amavo più disperatamente che mai. Mi stavo tuttavia adattando inconsapevolmente ad un gioco delle parti fino allora sconosciuto, eppure l’unico cui sapevo giocare. Mantenni perciò la calma, senza manifestare emozioni apparenti. << Penso che hai ragione, faremo così >>. Non vedevo l’ora di darle ragione in questo senso, ma un po’ di dignità dovevo pur lasciarla intravedere: << Non sarà così a partire da domani, ho bisogno di tempo per mettere in ordine le idee… Mi rimarrà lo stesso un enorme rimpianto >>.
Ci incamminammo in direzione di Piazza Statuto mentre un tiepido sole ottobrino illuminava i lavori in corso. << Dì qualcosa >>, esclamò Lucia ad un certo momento. Sospirai: << Penso di aver detto abbastanza in questi mesi. Forse anche troppo, non lo so… Quando uno crede davvero in qualcosa e adesso non ci può più credere, beh, non rimane molto da dire… >>.
Sono certo che una frase così sarebbe stata perfetta in qualche film di Rohmer.
<< Ce l’hai con me, vero, sii sincero >>, domandò con qualche esitazione. << No, sul serio >>, assicurai, << Sono sempre stato sincero con te e lo sono ora >>. << Vorrei chiederti ancora una cosa… ti ho delusa, è così? >>. << Beh, è difficile dirlo… >>, ma poi, con quella stessa sincerità appena nominata, aggiunsi: << Sì, un po’. Forse ti ho messa su un piedistallo che non c’è >>.
Rimanemmo zitti fino al momento in cui, giunti in Piazza Statuto, infine ci salutammo, il sole negli occhi e un gran peso sullo stomaco. Sembrava ancora impossibile: tutto finiva lì, con una stretta di spalle, allargando le braccia in un gesto di rassegnata impotenza. La pagina di diario terminava sulle note di una canzone: “… E fu del tutto sera qualcuno tornava, tornava presto e il resto fu andare via”.