Agli incontri coi genitori, i miei professori di scuola hanno sempre sostenuto la stessa tesi: «LaCapa è intelligente ma non si applica». Lo dicevano arrabbiati, con la faccia di chi ha voglia di tirarmi le orecchie, con il tono paternale di chi vuole darti una lezione dalla quale imparare. «È intelligente ma non si applica» per me era quasi un complimento. Dall’alto delle mie pagelle impeccabili, non capivo per quale ragione avrei dovuto applicarmi, mettermi a studiare davvero, fare più del minimo indispensabile. Aprivo i libri solo per le cose che mi interessavano, disertavo sistematicamente i compiti a casa e avevo la faccia tosta di non temere le interrogazioni. Sapevo che mi sarebbe bastato dare un’occhiata veloce ai capitoli per ricordarmi gli elementi più importanti, sapevo che tradurre greco e latino mi veniva facile e che gli esercizi avrei anche potuto farli in classe, tra una lezione e l’altra, sapevo di essere in grado di argomentare i discorsi, anche con una conoscenza minima degli argomento oggetto delle eventuali verifiche orali. Durante il liceo non ho allenato il mio cervello all’acquisizione della conoscenza, bensì alla parola piantata là a caso.
Ogni volta che qualcuno mi definiva «una intelligente che non si applica» io pensavo che, beh, evidentemente non avevo bisogno di farlo, ché tanto la media dell’otto a fine anno l’avrei raggiunta comunque, nonostante il cinque in matematica e il sei in educazione fisica. Oltre a quella fantomatica intelligenza, però, avevo anche una grande fortuna: frequentavo il classico e adoravo la letteratura. Greca, latina, italiana, inglese. Tutta quella che studiavo. Mi piaceva da pazzi, imparavo a memoria interi brani dei libri (e lo faccio ancora) perché era la cosa che mi veniva più spontanea. Ammiravo da morire chiunque riuscisse a citare in scioltezza questo o quell’altro autore, volevo saperlo fare anche io. E quindi le pagine dei manuali che ne spiegavano la poetica mi venivano facilissime. Mi bastava leggerle una volta e mai più per essere abbastanza preparata da prendere un buon voto durante un’interrogazione, e anche se non era periodo di pagelle le leggevo lo stesso. Perché quelle cose lì, per me, avevano un valore che andava oltre la scuola.
Quando ho cominciato l’università ho scelto il mio piano di studi riempiendolo di letteratura. Non c’era niente che avesse a che fare col giornalismo come piaceva a me, e allora mi sono buttata sulle linguistiche, le filologie, le teorie e via dicendo. DearLowe e SeMiRilasso ricordano mesi interi in una biblioteca senz’aria ad analizzare Foscolo e D’Annunzio, Leopardi e Pascoli, Petrarca, Boccaccio, Carducci, Dante, Alfieri, Goldoni, Verga, Pirandello e tutti gli altri. Quando la professoressa mi mise trenta – era il primo trenta della mia carriera universitaria? Non ricordo – ero soddisfattissima.
Qualcosa dev’essersi rotto dopo. O forse era già rotto e me ne sono accorta tardi. S’è inceppato il meccanismo grazie al quale non puntavo a «sfangarla» ma a divertirmi sui libri. Sono tornata l’arrogante ragazzetta del liceo che faceva meno del suo dovere, quella a cui i colleghi non credono quando dice «eh, ma non ho studiato» e poi esce dall’aula del professore con un voto sul libretto non inferiore a ventotto.
Ieri e oggi ho sostenuto due esami. Non mi interessava fare bene, volevo soltanto passarli. Per sbloccare la deprimente immobilità della mia carriera accademica e darmi una smossa in direzione della laurea. Due materie e, al netto della mia pigrizia e di qualunque altra cosa, sei giorni per prepararle entrambe. Una, poi, era notoriamente un macigno. Colleghe rimandate mille volte, panico durante l’appello, crisi isteriche e tentativi estremi di ripasso. Ho preso un voto basso, ma l’ho sfangata – l’obiettivo era quello – nonostante tutto.
Stamattina, con tre ore di sonno sul groppone e le ultime pagine del programma ancora da leggere, mi sono presentata all’altro esame. La materia m’era piaciuta tantissimo, non scherzo. C’era tanta letteratura, c’erano un sacco di citazioni da poter fare, c’erano mille spunti di riflessione interessanti. Quando mi sono seduta alla cattedra, davanti a me c’era l’assistente del professore. Giovane, giovanissimo, si vedeva che era buono. Ce l’aveva scritto in faccia: «Io sono quello che vuol capire che hanno in testa gli studenti, io voglio che ragionino». Per un’ora sono stata lì a raccontargli ciò che avevo imparato in maniera approssimativa. E lui lo sapeva che non era il massimo al quale potessi aspirare, lo capiva, gli dispiaceva. Non scherzo, era cristallino: quell’uomo era dispiaciuto. Allora, a un certo punto, mi sono sentita una cretina. Io, con tutta quella sboroneria di chi ce la fa comunque, non avevo idea di quello che mi stavo perdendo. L’approfondimento, il dibattito, la possibilità di confrontarsi perché l’università non è studio mnemonico bensì critico. E a lui, all’assistente giovane e buono, facevo un po’ pena. Mi ha segnato un voto e, prima di mandarmi a concludere l’esame col docente, mi ha fatto un’ultima domanda: «Perché?». Voleva sapere per quale ragione una intelligente come me –secondo lui – avesse scelto di non applicarsi. Gli interessava capire che cosa m’era passato per la testa quando avevo deciso di dare il minimo. Si è perfino preso la briga di domandarmi spiegazioni su quel periodo così lungo, testimoniato dalle firme sul benedetto libretto, senza avvicinarmi alla facoltà. L’assistente giovane e buono mi diceva che mi stavo sprecando, che non mi stavo dando una possibilità. E non lo faceva con un rimprovero, nemmeno con una valutazione bassa. In un altro modo ancora, gentile, che mi ha fatto venire un groppo alla gola che ancora non se n’è andato. «Non lo faccia per me, lo faccia per se stessa – mi ha detto – Prenda in mano quei libri, studi davvero e poi torni da me, per discutere e non per ripetere». Il numero che ha usato per la valutazione non era il suo giudizio. Capire che le due cose non sempre coincidono è stata un’epifania. Sapere che per lui ero un’imbecille è stato, invece, un grosso dispiacere.
L’ho ringraziato, gli ho promesso che sì, avrei fatto come diceva, e me ne sono andata in un’altra stanza – con la coda tra le gambe – ad aspettare che il professore arrivasse per farmi qualche ulteriore domanda e lasciarmi scappare. A esame completamente finito, il professore ha guardato il voto del suo assistente, ci ha aggiunto un punto e l’ha integrato con una lode. «Complimenti, signorina». Si è congratulato e mi ha stretto la mano. Avrei dovuto essere contenta. E invece no.