Otto mesi fa, era febbraio, provai a sottopormi un dilemma morale: è lecito augurarsi la morte di un dittatore? Al dilemma per molto tempo non sono riuscito a dare risposta. Ieri, guardando le immagini provenienti da Sirte, i video e le foto dell’esecuzione di Gheddafi, la fine di quarant’anni di storia di una nazione rappresentata dallo sfacelo di un corpo sottoposto a violenza, e che passa, come esige la contemporaneità, attraverso l’obiettivo sfocato di un cellulare, io credo di aver sciolto definitivamente il mio dilemma. Al di là delle considerazioni politiche, credo che ieri il popolo libico non abbia avuto giustizia, credo che gli anni di oppressione, i massacri perpetrati dalla tirannia del raìs, non siano stati scontati con un colpo di pistola sparato alla tempia, credo che il ricambio dell’offesa non ristabilisca l’equità, non chiuda i conti, ma li restituisca piuttosto a un universo in sospensione con il quale gli storici dovranno fare i conti per anni. E credo, soprattutto, che la morte di un dittatore dia respiro a chi è stato complice, a chi ha intrattenuto relazioni pericolose, a chi ha fatto affari d’oro, occasioni, business, a chi ieri, per scacciare forse un disagio presciente, ha chiosato in latino, tirando in ballo le illusioni della gloria del mondo. Ecco, non è mai lecito augurarsi la morte di un uomo, neppure se esso appartiene a una razza sanguinaria, neppure se è stato il volgare e feroce aguzzino di un popolo. Ci sono i tribunali internazionali, ci sono i processi, c’è una giustizia delle leggi terrene. E sono cose che non hanno nulla a che fare con questa pietà che oggi, nostro malgrado, siamo costretti a provare di fronte a quelle immagini, per sentirci ancora uomini.
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