“… e li pansieri ddiventane parole …”: poesia e musica di Mino De Santis.
23 gennaio 2013 di Titti De Simeis
Mino De Santis – Teatro Paisiello – Lecce
Freddo. Un freddo nebbioso e pungente. Il tavolino di un caffè, musica di sottofondo, rumore di posateria che fa da tappeto, voci che si sciolgono in un brusio morbido, tiepido di incontri.
Rivedo Mino dopo un po’ di tempo: è sempre uguale, con quell’aria scanzonata e timida di curiosità. Si sfrega le mani, ci soffia dentro un po’ di caldo e mi guarda con gli occhi che sorridono. Ho un foglio bianco che avevo preso per segnare degli appunti: glielo porgo.
- “Cos’è”? – mi fa,
- “Immagina” – gli dico.
Sfiora il foglio, lo sguardo oltre e con l’altra mano si carezza le labbra.
- “Immagino l’entusiasmo, lo stupore per quello che potrei scrivere. Spesso scrivo delle cose di getto e, subito dopo, faccio fatica a riconoscerle, stento a credere che siano mie. Quando scrivo è come se ci fosse un ‘io’ che si stacca ed osserva ed un ‘io che compone” -
Si ferma e mi porge il foglio, intatto, ma io ho come l’impressione di vederci l’impronta dei suoi pensieri.
Un altro sorso di thè e continua.
- “ Io credo che la nostra mente non sia fatta solo di razionalità, penso ci sia una parte di magia che la rende preziosa, unica. Ecco, bisognerebbe che noi imparassimo ad usarla di più, ad accoglierne la poesia, le emozioni che ci dona, il mistero di cui, poi, ci avvolge, invece di abbandonarci alla banalità, a quella normalità che ci rende tutti così ‘uguali’. Ma il più delle volte, coloro che ‘usano’ questa parte della ‘testa’ vengono un po’ presi in giro, considerati dei ‘bonacci’, come io stesso racconto in una mia canzone, dei semplici, dei sognatori. Dovremmo, invece, comprendere che proprio nelle cose più semplici si trovano le risposte più profonde, come nell’istintività troviamo risposte speciali” -
Semplicità. Come quella che si ‘ascolta’ e si legge nei suoi testi, quella che s’intuisce nella sua voce alla quale lascio il mio silenzio.
- “Nelle mie canzoni io scrivo e parlo di me, e, parlando di me, senza volerlo parlo per quella gente che non scrive o non canta, pur avendo dentro le stesse emozioni che io cerco di trasmettere. Io canto sentimenti comuni, che tutti vivono. Uso il dialetto, una lingua popolosa, popolata, attraverso la quale, cioè, parlo del popolo e del mondo di cui fa parte, attraverso un testo il più semplice possibile. Il mio obiettivo è quello di far sì che ogni quartina abbia un senso compiuto, a sé. Per me questo è il segreto per essere letti in maniera immediata, diretta. E’ questa la chiave: ogni strofa deve contenere in sé il senso di tutta la canzone. Dilungarsi nella quartina successiva fa distrarre chi ascolta. Io immagino una canzone fatta di tanti piccoli tocchi di colore, messi al punto giusto, in modo da poter accendere un’emozione. Il dialetto, fino a qualche tempo fa si è unito alle musiche popolari della pizzica. Io, invece, faccio convivere questa lingua con un genere musicale non tipicamente ‘salentino’ e con temi ‘universali’. All’inizio sono stato preso di mira dai cultori del cosiddetto ‘purismo salentino’, della musica tradizional-popolare: mi è stato accusato di voler smantellare qualcosa. Ma io non sono in antagonismo né in competizione con nessuno, e soprattutto, non mi sento, affatto, un’ “alternativa” a quello che c’è stato prima di me e che c’è ancora. Io faccio un’altra cosa. Quello che c’è, è giusto che continui ad esserci, che occupi lo spazio che gli spetta e venga tramandato alle generazioni successive. Ma è anche giusto cominciare a dire qualcosa di nuovo con un altro linguaggio. Io non so se quello che faccio lo faccio bene o male, però lo faccio. E farlo implica essere, sicuramente, sotto gli occhi della critica, cosa molto importante, certo, ma non deve condizionare in alcun modo il proprio percorso. Noi non viviamo più il Salento di quaranta o cinquant’anni fa, viviamo una realtà diversa e le tematiche che dobbiamo trattare sono ‘altre’. Per me il dialetto salentino diviene un pretesto per parlare di ciò che va oltre i nostri confini geografici. Son del parere che la sensibilità verso certi temi non è legata ad una latitudine in particolare. L’amore per la terra e per i problemi che le gravano addosso, che sia il Salento piuttosto che un altro luogo, resta invariato per chi la percepisce come ‘radice’, come ‘cosa sua’” –
La linearità di cui Mino parla è tangibile, ed è ciò che rende affascinante l’ascolto: i testi sono costruiti con la massima attenzione e cura. Ogni parola ha il peso del suo significato e dona il senso del suo essere stata scelta. Nessuna parola è uguale ad un’altra, c’è una scrupolosa ricerca linguistica e la musicalità verbale va a combaciare con la musicalità sul pentagramma.
Occorre coraggio ad usare il dialetto, incuriosire e svegliare l’attenzione di chi ascolta, trattando, però, argomenti di un certo spessore in modo quasi giocoso, e, proprio per questo, colpendo maggiormente l’interesse del pubblico.
Ciò che attrae è, infatti, la freschezza di un testo che non ha presunzione alcuna, e l’immediatezza di un linguaggio che è, sì, dialettale, ma possiede il peso della lingua ‘colta’, perché diviene portavoce di un pensiero, di una denuncia e di una poesia che vanno oltre il Salento.
Una metrica perfetta, rispettata con ogni mezzo.
Gli chiedo di parlarmene. Lui fa cenno col capo, mi dice di sì mentre finisce di sgranocchiare un biscotto e scioglie tra le dita piccole molliche di zucchero.
- “E’ vero. Con i testi sono molto meticoloso. Ho tante canzoni messe da parte perché mancanti anche di una sola parola. Non mi piacciono le forzature, tutto deve combaciare naturalmente. A volte capovolgo la frase, sposto il soggetto, rielaboro il verso e, se non trovo la rima con i termini che il dialetto mi mette a disposizione, prendo in prestito la lingua italiana. Questo perché, per me, l’amore per ciò che faccio, come l’amore in generale, è armonia e, a volte, anche nel caos ci deve essere quel ‘qualcosa’ che dia la giusta misura. Anche nella musica, nell’incontro di differenti esperienze musicali che confluiscono in un lavoro d’insieme. Come mi è capitato con i musicisti che collaborano con me, in sala di registrazione e nei concerti dal vivo” –
Mino De Santis – Teatro Paisiello – Lecce
Mino si esibisce spesso con la sola formula ‘chitarra e voce’. Accanto a sé, però, ha un gruppo di professionisti che hanno saputo abbracciare e vestire di bellezza aggiunta i suoi pezzi e sono: Emanuele Coluccia al sax, Mauro Semeraro al mandolino, Pasquale Gianfreda al basso, Pantaleo Colazzo alla fisarmonica Nazario Simone alla batteria ed Eleonora Pascarelli alla voce. Lui ne parla con affetto, con un sorriso paterno, e dice:
- “ Sono unici. Dietro ogni strumento c’è una persona che è riuscita ad emozionarmi con la sua esperienza regalandomela, ed arricchendomi di sé. Ho imparato da loro in uno scambio in cui nessuno è stato maestro di nessuno, siamo insieme in un lavoro fatto in spontaneità ed umiltà. Ognuno ha messo del suo, e spesso, improvvisando. Ogni canzone smette di essere ‘nostra’ o ‘mia’ nel momento in cui la eseguiamo e tutto quello che c’è dentro, l’impronta di ogni singolo musicista, se impressa con l’anima, arriva in chi ascolta, appunto. E in chi la riceve c’è la libertà di ‘leggere’ ciò che più gli somiglia, di vivere quel messaggio come ‘suo’ e di interpretarlo in base a quello che ci ‘sente’ dentro. Questa è la grandezza dell’arte fatta non con lo scopo di emergere, come protagonisti, ma con il solo intento di lasciare ‘entrare’ gli altri in quello che noi facciamo con passione. Io posso ritenermi fortunato perché attraverso la musica ho avuto la possibilità di esprimermi, di ‘arrivare’ agli altri per quello che sono, con autenticità, senza pretese, senza false apparenze ed essere ‘amato’ per questo. Mi sento un ‘bonaccio’, vivo sempre un po’ ‘così’, fra le nuvole, dimentico le cose, le faccio a modo mio e non mi sento cambiato per niente da quando ero ‘sconosciuto’, ad oggi. Sono la stessa persona. C’è chi mi ha paragonato a grandi nomi della musica ma io, come tutti, sono il risultato di quello che ho vissuto, che ho assorbito, attraverso cui mi son formato. Gli accostamenti a tutti i vari De Andrè, Gaber sono veri e falsi al contempo: io sono il frutto della cultura che mi ha ‘educato’, così come succede in chiunque. Nessuno inventa nulla, semmai ognuno rielabora le cose, le riadatta a se stesso, non le crea mai del tutto. Quello a cui tengo è esprimere le mie idee e cantarmi nello stesso modo con ogni tipologia di pubblico io abbia di fronte, senza veli. Le mie canzoni possono essere gradite oppure no, di sicuro non sono delle canzoni ‘ruffiane’, fatte apposta per piacere a chi mi ascolta. A me quello che importa è tramandare le emozioni che mi inducono alla scrittura e cantarle col cuore, perché trovino casa in chi le vuole amare” –
Lo osservo mentre parla: ha l’espressione di chi cerca dentro di sé il gusto raro delle sensazioni che vuole trasmettere quando, s’interrompe tra i pensieri, e mi guarda.
- “ Grazie” – mi dice e torna a sfiorare il foglio bianco, poi lo piega in quattro e me lo porge.
Lo tengo tra le dita, la sua ruvidezza sa di antico, di quelle pagine di una volta, da intingere con l’inchiostro.
- “Grazie” – gli dico.
- “Conservalo, dove la noia non arriva, dove il sole non sbiadisce”- dice, piano.
Sta per iniziare il concerto. Mi prende la mano, mi invita in prima fila.
Un appaluso a scroscio lo accoglie. Tanta gente. Tutto esaurito e coda all’entrata.
Con il piede inizia a battere il tempo.
Metto la mano in tasca. Incontro il suo foglio. Nessuno vi leggerà nulla, il bianco di quel foglio sarà per gli altri, non per me.
La voce di quel foglio andrà lontano, la sua musica è già del mondo.