di Maria Pia Caporuscio. Quanti sfregi contro gli uomini e la natura vengono compiuti ogni giorno, da questi alieni, che abbiamo imparato a conoscere come i sacerdoti del dio denaro. Esseri disumani appunto, o forse uomini sbagliati per un errore genetico, chissà…
Questi alieni che non si sono mai adeguati a vivere come gli altri esseri umani, anzi ne sono diventati nemici perché al loro osceno dio, devono sacrificare la vita degli uomini e dello stesso pianeta. Questi esseri privi di anima e di cuore, non conoscono pietà e tutto deve essere finalizzato al profitto, senza badare a quanta morte si lasciano dietro. Ma che c’è di più orrendo di far morire per fame e sete milioni di vite? Cosa c’è di più criminale dell’avvelenare le acque, l’aria, la terra e i mari? Questi mostri (nascosti dietro misteriose sigle per non farsi riconoscere o forse perché si vergognano essi stessi di quello che fanno) sono capaci di tutto e quel che è peggio si sentono al di sopra di tutti, tanto è vero che si sono arrogati il diritto di ergersi a padroni del mondo e alla loro feroce bramosia sottomettono ogni cosa. Non capiscono di essere anch’essi col piede nella fossa e moriranno come tutti. Gli uomini veri sanno di essere solo di passaggio e rispettano questa casa, cercando di preservarla intatta per coloro che verranno dopo, mentre questi “alieni” pretendono che muoia con loro. Guardo sconvolta il letto vuoto dove scorreva il mio fiume e chiudo gli occhi nell’assurda speranza di aver avuto un incubo, ma quando li riapro vedo chiaro che il mio fiume non c’è più! Mi viene da pensare ad un disastro atomico, ad un terremoto, ad una catastrofe naturale, ma qui non c’è mai stato niente di simile. Il mio sguardo si sposta incredulo da una sponda all’altra del Liri mentre le gambe faticano a sorreggermi: non c’è più la ghiaia lucida e bianca, né gli operai a torso nudo, abbronzati e belli come statue di bronzo a caricarla sui camion per l’utilizzo nell’edilizia, al suo posto crescono erbacce e sterpi. Mi guardo intorno alla ricerca dei salici ma di quei maestosi alberi non ne vedo nemmeno uno. Dove sono finiti i miei salici? E i pioppi dove le foglie mosse dal vento pareva cantassero nenie dolcissime, che a me parevano provenire da paesi lontani. Dei pioppi, dei salici, non resta nemmeno un tronco a testimoniarne la passata esistenza. Ovunque si posa il mio sguardo, vedo solo sterpi, erbacce e fanghiglia. Non c’è più la cascata che troneggiava al centro del fiume dove qualche incauto barcaiolo si capovolgeva, attirando l’attenzione di tutti e facendo accorrere al salvataggio, i venditori di ghiaia e gli altri barcaioli. Quella cascata che lanciava nel cielo una miriade di bollicine candide e sollevava un fumo di nebbia, che il sole trasformava in un incredibile arcobaleno che mi incantavo a guardare per ore, è adesso un sepolcro, i mulinelli e i gorghi profondi, delle pozzanghere oscene. Le rocce levigate e lucide come cristalli, sono ruvide e scure e intorno ad esse e sopra di esse, ortiche e sterpi. Quelle rocce, un tempo vive, sembrano reperti archeologici dal sapore di morte. Una schiuma giallognola galleggia sulle pozzanghere e dove il fiume era più profondo, cocci, barattoli e fanghiglia frammista a rifiuti. L’acqua limpida e viva che proprio in quel punto, saltava festosa dalla cascata e il rumore che faceva precipitando, era la musica stessa del mio paese, era il benvenuto al visitatore e la compagna fedele dei vecchietti, che si intrattenevano per godersi il fresco, nelle giornate di calura. Era il punto d’incontro delle comari che sciorinavano gli ultimi pettegolezzi. Era il divertimento dei discoli, che si tuffavano a capo fitto per raggiungere l’altra sponda, sotto lo sguardo di disapprovazione di chi queste cose, non aveva mai fatto. Mi passo le mani sugli occhi: non è vero! Il mio fiume è ancora lì, maestoso come sempre e come sempre affollato sulla riva destra perché quella sinistra è inagibile. Inagibile per tutti tranne che per i ragazzi, che riescono sempre a trovare il modo per raggiungere anche luoghi inaccessibili. Le rocce sono una barriera per le donne che abitano quella sponda e devono traversare il ponte per poter lavare i panni nel fiume. Le vedo arrivare con quelle grosse ceste sul capo e camminare spedite senza sorreggerle, perché stranamente quelle ceste, restano ben ferme sul loro capo quasi vi fossero incollate. Ogni volta mi chiedo come fa quella cesta a restarsene ferma senza cadere e loro ridono indovinando i miei pensieri e si mettono a correre per mostrarmi la loro bravura, poi si voltano a guardarmi divertite. Raggiungono il fiume e depositano sul bordo, la cesta carica di panni, poi si arrotolano la gonna in modo che l’acqua non bagni troppo i loro abiti e dopo essersi impadronite della roccia più comoda, vi depongono i panni.Dove sono ora le mamme che al fiume lavavano cantando a squarciagola per rendere meno pesante il lavoro? E i venditori di ghiaia che si univano al coro e i bambini che raccoglievano margheritine e violette e correvano felici di tanta libertà? Dove sono le voci, lo sbattere dei panni, il profumo di sapone, le risa e i canti che riempivano di vita questo luogo? Dove il rumore caratteristico del mulino? Quel silenzio assordante mi provoca brividi lungo la schiena. Ma cosa ci hanno fatto e perché? Perché Cristo distruggono il creato per lurido profitto? Che se ne fanno questi mostri di tutti i soldi che rapinano alla povera gente? Neppure se vivessero cento vite riuscirebbero a consumarli. E’ questa la dimostrazione che sono dei pazzi che andrebbero chiusi in un manicomio e gettata via la chiave. Questi criminali non ci portano il progresso come vorrebbero farci credere, ma distruggono la nostra esistenza, ci privano della gioia di vivere, ci tolgono la pace! Qui la gente non aveva bisogno d’altro, ma tutti compresa me (da bambina passavo molti mesi dai nonni) eravamo felici di ciò che avevamo. Noi ci sentivamo ricchi solo di vivere in questo posto meraviglioso. Ci bastava alzare gli occhi al cielo e ubriacarci di azzurro, ci bastava ascoltare il suono delle campane, il frinire delle cicale o il cinguettio festoso degli uccelli. Ci bastava il crepitio della legna che bruciava nel camino mentre fuori nevicava, o guardare la pioggia scendere in rivoli sui vetri, mentre lavava le strade e i tetti delle case. Io amavo passeggiare al chiaro di luna in compagnia delle stelle e spalancare la finestra al mattino per godermi il risveglio del paese col cuore gonfio di gioia. Mi bastava guardare i fiori del glicine, che dal portone saliva fino al balcone portandomi i suoi meravigliosi grappoli e inondarmi del suo delicatissimo profumo, per sentirmi ricca e avere voglia di gridarlo forte. Mi deliziava il profumo del pane, che mia nonna sfornava con orgoglio le sue pagnotte croccanti e dorate. E quando mi arrivava alle narici il profumo del battuto che zia Giacinta soffriggeva preparando il sugo, mi veniva l’acquolina in bocca. Mi emozionava nell’attesa del Natale vedere mio nonno dipingere le statuine del presepe e i vicini di casa costruire i borghi di cartapesta, le casette, le statuine di creta scambiandosi consigli tra loro. Durante l’estate i vicini stavano tutti fuori al fresco seduti di fianco alla porta di casa intenti a svolgere i loro mestieri: Guido impagliava le ceste e cestini di vimini, Adriano risuolava le scarpe, Francesco impagliava le sedie la moglie lavorava a maglia e la figlia Annunziata faceva l’uncinetto, mentre la sorella Palmira ricamava. Antonietta portava fuori casa la macchina da cucire e si sentiva il rumore caratteristico anche a distanza. Durante l’inverno si stava in casa e solo laggiù in fondo alla strada la vecchia Emma arrostiva le castagne e il suo profumo mi faceva precipitare di sotto e con la bocca piena salutavo con la mano Adriano che portava le pecore al pascolo mentre la moglie Giovannina girava la ricotta e sorridendo mi faceva capire che era quasi pronta. Ma come si fa ad approfittarsi di queste persone e punirle per l’ingenuità? La gente di qui è troppo pulita e semplice per capire cosa si nasconde tra le righe quando a spiegarlo sono i “dotti”. Così quando le multinazionali costruirono la diga promettendo tre anni di lavoro accettarono di dargli l’acqua del fiume. Non si resero conto di cosa significasse, se non troppo tardi. Ma i signori del comune sapevano bene quel che facevano. Quando arrivarono questi lupi, il sindaco e la giunta convinsero questa povera gente, ad accettare la morte del proprio paese, come cosa buona. Questi scempi vengono fatti da uno Stato da buttare, contro cittadini indifesi considerati pezzenti e dei pezzenti non si tiene alcun conto, per cui avere niente o meno di niente, fa lo stesso. La diga poteva essere costruita a valle, oltre il paese e permettere così alla gente di continuare a godere di un bene che né il sindaco, né i governanti o le multinazionali gli avevano regalato. Questo è un mondo dove chi più ha più deve avere, e chi meno possiede, meno ancora deve possedere. Mentre guardo questo scempio mi tornano in mente le parole che diceva mio nonno durante i nostri straordinari vagabondaggi nei boschi o sulla barca in quei lontani e indimenticabili giorni: “I soldi sono la maledizione degli uomini se non ci fossero i soldi non ci sarebbero sfruttatori e sfruttati” Mio nonno in paese era conosciuto come “zi Angelo” e non soltanto in paese, ma anche nelle frazioni vicine, dove si recava sovente per lavoro. Faceva di tutto mio nonno e sapeva fare tutto: dal veterinario all’ombrellaio, dall’elettricista al meccanico. Così quando ad un agricoltore si inceppava la trebbia o doveva partorire la vacca, si ricorreva a “zi Angelo” L’onorario per le sue prestazioni erano due polli o un inserto di salsicce o un sacco di grano. Mio nonno non voleva assolutamente essere pagato con soldi diceva che a a lui piaceva aggiustare le cose, quindi era solo uno scambio di favori fra vicini di casa per cui ognuno scambiava con l’altro quello che aveva. Io lo seguivo sempre e durante il viaggio nelle stradine di campagna imparavo tante cose a cominciare dal mattino, quando veniva a svegliarmi e io mi rigiravo dall’altro lato. - Sbrigati! - Brontolava - Altrimenti perderai la nascita del sole. Mi alzavo malvolentieri ma appena bevuto il caffellatte che mi aveva preparato, ne ero felice. Uscire col buio, mentre il paese era immerso nel sonno, aggirarsi nelle vie deserte, era una sensazione di avventura e di mistero, mai più ritrovata in seguito. Quando il primo chiarore cacciava via le tenebre della notte, eravamo già nei viottoli di campagna e all’altezza del ponticello “Mater Dei” mi gridava: - Voltati! Io rimanevo senza fiato. Il sole nascendo mandava i suoi raggi contro le mura delle case ormai lontane, avvolgendo il paese in una fitta nebbia dorata. La collina dove sorgeva, ancora immersa nell’ombra non si notava, tanto che il paese pareva sollevato nel nulla, come nelle fiabe. Nei viottoli incontravamo alle volte dei cespugli di fichi d’india dalle grosse foglie cariche di pericolosissimi aculei ma lui coglieva i frutti con disinvoltura. Mi stupiva ogni volta la sua grande abilità nel prenderli senza pungersi, poi tirava fuori dalla tasca dei pantaloni la “mozzetta” e con due tagli levava di mezzo le due estremità poi con un taglio secco lo apriva completamente e mi porgeva il frutto. Ammiravo la destrezza delle sue mani scarne dalle dita lunghe e ossute, dove erano evidenti i segni dell’artrosi. Coglievamo le susine, le pere, le nespole che pendevano dai rami, fuori dei recinti e ne gustavamo i sapori dolcissimi seduti sui muretti. Quando raggiungevamo il casolare venivamo accolti dall’abbaiare di un cane e da un “a cuccia”. La padrona di casa mi prendeva per mano mentre il marito spariva da qualche parte col nonno. Quelle colazioni, alle nove del mattino a base di uova, salsicce pane ancora caldo e vinello frizzante, seduti sull’erba intorno ad una tovaglia di bucato distesa sul verde tappeto, all’ombra di una pianta erano attimi di eternità. Di ogni casolare che visitavamo mi restava negli occhi qualcosa di straordinario, i vigneti ben allineati dove pendevano grappoli di uva bianca o nera, gli alberi carichi di frutti di ogni tipo, i giganteschi ulivi con i rami stracarichi di piccoli frutti, il profumo della terra appena rimossa, l’immensa distesa del grano che mosso dal vento mi faceva pensare al mare, la gentilezza e la festosa accoglienza dei proprietari al nostro arrivo, ma anche quello che durante il viaggio mio nonno diceva: …la terra è il patrimonio naturale di ogni individuo che la abita… …ogni persona è sacra e non esiste alcuna differenza tra il figlio del re e il figlio dello spazzino… … ci si deve ribellare alla violenza, perché nessuno ha il diritto di appropriarsi di cose che appartengono a tutti… … chiunque è dotato di quella luce intellettiva, capace di illuminare anche gli altri, deve metterla al servizio della comunità in cui vive… … chi possiede la notorietà e quindi il potere di usare le proprie mani e non lo fa è un vile! Vile è il giornalista, lo scrittore, l’artista, che spreca il potere delle sue mani solo per se stesso, ignorando i problemi che affliggono la comunità in cui vive, delle sue mani ne ha fatto artigli… …esiste un solo tipo di guerra che va combattuta, quella contro i rinnegati della vita, contro chi ti avvelena l’aria che respiri. La guerra va fatta alle industrie chimiche che ti avvelenano anche il pane che mangi, ai fabbricanti di armi che le puntano contro te stessa, perché ogni persona che muore, muore anche un pezzo di te. La guerra si deve fare ai capi di Stato, ai generali, che mandano a morire i tuoi fratelli per lurida sete di potere. Va fatta agli sfruttatori che si arricchiscono sulla pelle di chi è costretto a lasciarsi sfruttare per potersi sfamare. Sono queste le guerre giuste, guerre che non uccidono ma servono a migliorare la qualità della vita, a difendere la giustizia sociale, la parità dei diritti, perché ogni essere umano deve vivere con dignità. La guerra va scatenata contro chi con l’abuso di potere, si arricchisce togliendo quel che spetta a chi potere non ha, dividendo gli esseri umani in ricchi e poveri. E’ necessario farle conoscere queste verità, è di vitale importanza sensibilizzare i nostri simili, stimolandoli a lottare per far valere i propri sacrosanti diritti. Le lotte sono giuste solo quando servono a migliorare il nostro vivere. Ecco cosa significa avere due mani. Molto spesso dopo questi discorsi mio nonno mi guardava turbato, scuotendo leggermente il capo mentre si accendeva la pipa, forse pentito di parlarmi di queste cose, allora gli accarezzavo la mano e subito tornava a sorridermi rassicurato - Sono discorsi difficili lo so, ma so anche che tu mi capisci. Sono certo che ricorderai questi nostri discorsi e voglio sperare che il tempo non ti cambi. Sei il mio piccolo seme e chissà… Poi dopo aver riposto la pipa sussurrava quasi a se stesso - Si deve riuscire a stroncarla la povertà e costruire un mondo più giusto. So bene che questo è solo un sogno ma sapessi quanti siamo a sognare, aspettando che qualcosa ci aiuti a realizzarlo. Devi sapere che anche un sogno, se sostenuto da grandi masse, può riuscire ad infrangere le barriere dell’ingiustizia, devi sapere che tante mani unite riescono a spianare persino le montagne!” Caro nonno nel frattempo lo scrivo…