7 luglio, ore 6.35, Cassano allo Ionio, Italia: il boss della ‘ndrangheta Celestino Abbruzzese, di 67 anni, è stato arrestato dai carabinieri L’uomo era latitante dal marzo scorso dopo che era evaso dall’ospedale di Catanzaro. Abbruzzese è stato rintracciato dai carabinieri per strada nel quartiere Timpone Rosso di Cassano allo Jonio, dove decine di persone si sono riversate per strada per evitare che i carabinieri lo arrestassero.
La notizia è rimbalzata come in uno spot di Telepadania facendo da contrappunto a quella riportata già ieri, sulla collocazione geografica degli oltre 3.400 falsi poveri e falsi invalidi scoperti e indagati dall’inizio dell’anno dalla Guardia di Finanza, e che percepivano indebitamente pensioni o assegni di sostegno. I 1.844 falsi poveri e i 1.565 falsi invalidi sono costati alle casse dello Stato oltre 60 milioni. Alla retorica su un Mezzogiorno estraneo alla modernizzazione, apocalittico rispetto all’integrazione europea, inadeguato e inadempiente rispetto allo nostra feconda modernità si addice anche – perché no? – il caso Ilva, i cittadini che accettano accondiscendenti di sfidare il cancro per un tozzo di pane, elargito benignamente dal Gruppo Riva di Milano.
Sarebbe ora di far sapere anche alla nostra stampa di regime che per assecondare padroni e compiacere la loro teologia del mercato, ci inzuppano le brioche in questo folklore locale, che il ricatto che strangola i diritti promettendo una occupazione dequalificata e precaria non ha confini territoriali, come la corruzione e l’evasione fiscale, come l’abbandono scolastico e l’allargamento di quell’area grigia dove sopravvivono disperatamente giovani che non studiano non hanno un’occupazione e non la cercano. Come le infiltrazioni della criminalità nelle banche nelle grandi opere e nei grandi eventi. E è garantito che se il Madoff dei Parioli avesse procurato qualche profitto in più e qualche uscita in meno ai suoi imprudenti clienti blasonati, quelli beneficati sarebbero scesi a piazza Euclide a impedirne l’arresto. Altro che Nord omogeneo al ricco e pingue Belgio e Sud parassitario, ostaggio delle mafie: l’esito sicuro della crisi e del declino di una “idea” d’Europa è quello di spingere giù in un terzo mondo interno i Paesi pigs, confinandoli e emarginandoli in un mezzogiorno dell’Occidente, impoverito di mezzi, diritti e sovranità.
Non fosse che per autodifesa dovremmo sfatare leggende, retoriche e stereotipi a proposito del tormentato rapporto tra il nostro Mezzogiorno e il resto del paese. A cominciare da quello secondo cui il divario tra Nord e Sud fosse l’espressione di una inferiorità storica e come tale già presente al momento dell’unità. Proprio in quegli anni le due parti del Paese erano allo stesso livello di reddito pro capite. Il divario invece si manifestò e si allargò drammaticamente nel periodo che va dall’Unità d’Italia alla seconda guerra mondiale, che distrusse gran parte degli impianti industriali campani con i bombardamenti alleati e con le distruzioni operate dai tedeschi in ritirata. Mentre minori danni ricevette l’industria del Nord, ed anche a causa di questi eventi si approfondì il solco tra le due parti del paese, che verso la fine degli anni ’40, in termini di Pil procapite, si era allargato sino a 40 punti percentuali.
Questo dualismo fu affrontato nella fase dell’intervento straordinario, tra il 1950 e il 1975. Durante quella età di Pericle, il Meridione mostra dinamismo e potenza nella performance economica: per la prima volta nella storia unitaria recupera almeno 20 punti del ritardo che aveva accumulato negli anni precedenti. Siamo nella fase dell’intervento dello Stato a sostegno della realizzazione della riforma agraria e della politica di industrializzazione nei settori di base (petrolchimica, siderurgia), che permette al Mezzogiorno di dare un forte impulso alla crescita del reddito e dell’occupazione e che è funzionale anche allo sviluppo dell’industria manifatturiera del Centro-Nord. Ad esempio gli impianti siderurgici di Bagnoli e di Taranto producevano la materia grezza (acciaio) che poi veniva trasformata dalle imprese del Nord che realizzavano i prodotti in metallo (rubinetteria, posate, tondini, ecc. ) e le macchine utensili.
Ma dalla fine degli anni ‘70 il divario è risalito sia perché sono entrati in crisi i settori su cui si era basata la crescita industriale del periodo precedente sia perché gli investimenti furono sostituiti da una politica di trasferimenti che tendeva ad alimentare i consumi finali piuttosto che a sostenere la realizzazione di infrastrutture e il rafforzamento della base industriale del Sud. La miopia della politica industriale italiana si esalta nel Mezzogiorno: intorno ai grandi impianti non cresce quel tessuto di piccole e medie imprese operanti nella trasformazione industriale che avrebbe promosso anche uno sviluppo endogeno delle regioni meridionali Così negli ultimi 30 anni il divario del Pil procapite tra il Mezzogiorno e il resto del paese riprende ad allargarsi arrivando a toccare un valore intorno al 40% nel 2009.
E c’è un’altra menzogna convenzionale che va smascherata, quella sul volume enorme dei trasferimenti consegnati dal Nord al Sud del paese. Una recente indagine della Svimez ricorda che cinque sono le regioni che registrano un deflusso netto di risorse. E solo in parte dal Nord al Sud. Piemonte, Lombardia e Veneto registrano un reflusso ridotto di oltre 50 miliardi di euro (rispettivamente 1,2 miliardi in Piemonte, oltre 4,2 in Lombardia e quasi 7 in Veneto). Ma a garantire la “solidarietà” sono anche l’Emilia Romagna per 5,5 miliardi e il Lazio per 8,7: queste cifre, messe assieme, portano il deflusso totale verso il Sud a 65 miliardi. Sfatato quindi il mito leghista della “Roma ladrona” che succhia risorse dando poco o niente, va in crisi anche la generalizzazione di un Nord sempre pronto ad aprire il portafoglio. Se poi si guarda alle regioni a Statuto speciale come il Trentino, il Friuli e la Val d’Aosta la proporzione si inverte. E non è vero che se il Nord fosse liberato dal peso del Sud la sua economia ne trarrebbe vantaggio. Nel periodo durante il quale l’afflusso esterno di risorse nel Sud si è ridotto anche il Nord ha segnato un declino. Infine: la quota di risorse che affluisce al Sud non è affatto superiore alla sua incidenza in termini di popolazione. Al contrario, la spesa pubblica erogata al Nord costituisce il 70 per cento della spesa nazionale, la popolazione il 60 per cento.
È che il vero indicatore del grado di civiltà dell’Italia, è il suo Mezzogiorno. Che è anche il terreno di sperimentazione delle sue capacità e il teatro profetico dei suoi disastri e dei mali che la affliggono: corruzione, clientelismo, penetrazione criminale, la patologia dei finanziamenti dispersivi e sterili, quei flussi più o meno occulti come fiumi carsici che alimenta redditi, consumi, rivoli di pratiche illegali, che non promuovono investimenti capaci di attivare processi di sviluppo autonomo ma diventano funzionali a qualcosa di tremendamente perverso, una condanna alla subalternità e all’emarginazione compensata malignamente dall’assistenzialismo e delle elargizioni clientelari.
Le risorse trasferite al Sud non sono state lo strumento di una grande opera di sviluppo economico, bensì la base di potere di una classe politica incompetente e avida, le cui dinamiche di potere hanno provocato una balcanizzazione dei partiti dominanti, creando un blocco gerarchico-burocratico. E’ quello il prezzo che i governi nazionali hanno pagato in cambio dei voti, altissimo se ha prodotto e consolidato le condizioni della separatezza, incrementato le disuguaglianze, alimentato la frattura tra la rivolta del nord e la deriva criminale del sud.
Il problema più grave, ingigantito negli ultimi venti anni, non sta nelle risorse economiche da mobilitare quanto nella degradazione delle risorse politiche nella degenerazione della classe politica meridionale, nella terrificante diffusione della economia sommersa e dell’economia criminale e mafiosa. E soprattutto, nella contaminazione tra questi due malanni, che riecheggia ormai in tutto il Paese diffondendosi come una cancrena che prolifera e contagia e si auto contamina.
Oggi più che mai le risorse destinate al Mezzogiorno sono insufficienti ed elargite senza disegno strategico come una elemosina. Ma il vero problema è quello dell’uso che se ne fa, o meglio dell’abuso, nella quantità e qualità dell’economia sommersa “legale”, nel formidabile volume dell’economia criminosa, nella penetrazione di quest’ultima dal Sud al Nord; nelle sue diramazioni mondiali: il Fondo Monetario Internazionale ha analizzato per gli anni 1999-2001 l’incidenza del sommerso sul PIL in 24 paesi. Tra i paesi dell’Ocse l’Italia occupa il secondo posto con un’incidenza del 27 per cento, dopo la Grecia. Negli ultimi anni la tracimazione delle organizzazioni mafiose del Sud nel Nord ha assunto dimensioni impressionanti. A Modena il procuratore della Repubblica ha dichiarato che se avesse il potere di sradicare il crimine dalla città “mi caccereste perché vi avrei rovinato”. E in una mappa pubblicata dal Corriere della Sera in occasione delle dimissioni di Pisapia da commissario dell’Expo, Milano appare circondata dalle cosche della ’n drangheta.
Se come disse Mazzini, l’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà, oggi la profezia sembra concretizzarsi nel modo più devastante. E non è un problema di Cassano allo Ionio, è affar nostro, di noi, tutti terroni.