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E non è un cielo stellato

Creato il 31 marzo 2014 da Abattoir
E non è un cielo stellato

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Toh! Solo 5!

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Teatro Biondo Stabile di Palermo, ecco dove siamo.

 

No, non sono stelle.
E’ solo la platea di un teatro di prosa, il più importante di Palermo. Nella fattispecie, sono i suoi spettatori. Anzi, no: sono i supporti cerebrali dei suoi spettatori: i cellulari e gli i-pad. Sono i cellulari e gli i-pad che guardano l’Otello di Luigi Lo Cascio al Teatro Biondo di Palermo.

Budapest, The Wall, stessa scena: no godersi la musica, ma scassarla ai tuoi vicini col cellulare in aria per riprendere tutto TUTTO IL TEMPO. Cioè, hai Roger Waters davanti, cazzo, ma che min**** ci combatti con lo zoom dell’i-pad?!? Ma canta, muoviti, vivi le tue sensazioni! NO, okkei, respect. Ma almeno abbassa quel ca*** di sostituto penico, lo capisci, brutta bestia stalkerante il mondo, che non mi fa vedere nulla? che sono esattamente dietro di te, alta solo un metroeccinquanta, e che con quel coso grande quanto la mia testa mi impalli tutto il concerto che ho pagato col sudore delle mie carni?

Altro giro, altra corsa: Agrigento, concerto di Vinicio Capossela accanto al tempio di Hera. E accanto a me tizia con l’i-phone tutto il tempo acceso. Sul Rebetiko di Capossela. No, piccola social-addicted unghiuta, non pensare neanche per un secondo che mi stai disturbando, che siamo al buio solo con le luci del tempio e del palco e che tu stai rovinando tutto, fatti umiliare, fattelo dire in faccia dopo avermi esasperato tre quarti d’ora e avermi rovinato il romanticismo del momento. Grazie.

Mi sono chiesta mille volte perché. E soprattutto perché fino a questo punto.
Che è anche quello di amici e conoscenti che non vedo da giorni e settimane che, invece di chiedermi come va o dirmi di loro, si controllano le notifiche su facebook.
Una risposta in pillole di post-moderno me l’ha data un professore a lezione: “i cellulari sono una patologia etnica”; e disse così proprio come se “il cell.” fosse una sindrome tipica del nostro contesto capitalista, della nostra perduta incapacità occidentale di stare da soli, di accettare la limitatezza del perdere il controllo su tutto, di smollare questi supporti mentali che ci sostengono la vita in ogni momento.
Forse perché effettivamente la nostra “etnia” è a un passo successivo dell’evoluzione umana: forse ci interessa solo osservare dentro questi dispositivi, la loro lucina, la possibilità infinita di lurkare che ci offrono.
O forse sono scomode le poltroncine rosse che hai pagato per quelle due ore, forse è poco importante toccarne il velluto, osservare il tetto stuccato del teatro, il pesante tendone drappeggiato, il tuo vicino di fila, ascoltare i suoi discorsi con le orecchie e non attraverso lo schemetto touch che stai palpeggiando vogliosamente.
Forse è tutto molto insignificante ciò che viviamo oggi, non serve stringere la mano al tuo ragazzo né altro, a meno che non devi partorire SUBITO uno status-da-social.

Anche questa è relazione, sì. Innegabile. E no, non mi chiederò ancora una volta i perché né verso dove stiamo andando. Nessuno scenario apocalittico da dipendenza per oggi.
Fermiamoci, semmai, su un’altra pillola di saggezza post-moderna, che è l’umiliazione che arriva da un attore che sta lì sul palco davanti a te e per te, pagato per questo da te: Lo Cascio smette un attimo di impersonare Iago, si stacca da una mimica e da un parlato siciliano cadenzato, deciso, celere, risoluto, meravigliosamente ritmato …per esclamare al suo dirimpettaio-da-prima-fila-i-pad-addicted con voce sconsolato-flebile: “Ti prego, basta… Qui siamo nel Seicento!” …E quello non sarà mai meglio di un cielo stellato.


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