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Sì, perché E ora dove andiamo? è un film profondamente drammatico, ma anche lieve come un passo di danza.
La storia è presto detta. In un paesino del Medioriente (forse il Libano?) una piccola comunità formata di cristiani e musulmani vive fuori dal tempo (potrebbe essere ieri o gli anni Cinquanta) e dallo spazio (una specie di crepaccio naturale è l'unica via di uscita dal paese e di accesso al mondo esterno). Dall'unica televisione presente in paese e collocata nell'unico posto - in cima a una collina - in cui prende, arrivano gli echi degli scontri religiosi e delle morti che provocano ogni giorno.
Nemmeno il piccolo paese ne è indenne, tanto che tutte le famiglie hanno un figlio, un marito o un parente da piangere. Così le donne, indipendentemente dal fatto che portino il velo o la testa scoperta, si alleano per evitare che queste morti e questi conflitti senza senso si ripetano nella loro comunità.
E le provano tutte: distruggere il televisore che porta le notizie di guerra, far piangere sangue alla Madonna e gridare al miracolo, far arrivare un gruppo di ragazze dell'Est per distrarre gli uomini, impastare biscotti e frittelle con hashish per renderli allegri e non farli pensare ai motivi dei loro piccoli screzi, fino a rovesciare completamente la loro prospettiva, a ribaltare il mondo che conoscono mettendoli di fronte all'unica verità: la religione è un abito che ognuno ha imparato a portare dalla propria famiglia e dalla propria storia, ma nei rapporti umani ciò che conta sono le persone e l'affettività che li unisce.
In questo film si ride, si piange, si canta insieme ai personaggi, si riflette, ci si commuove. Ma niente di tutto questo in maniera eccessiva. O forse niente nel modo a cui siamo abituati.
Perché è indubbio che Nadine Labaki (la bellissima, nonché bravissima regista e attrice di E ora dove andiamo?, nonché del successo di qualche anno fa Caramel) appartiene a un universo culturale lontano dal nostro. Così come è vero che questo universo culturale ha un modo diverso di raccontare le storie rispetto a quello che ci è più familiare, utilizza una struttura e un ritmo narrativo che a volte ci lasciano interdetti.
A me verrebbe da definirlo "un racconto sincopato", non perché gli manchi qualcosa ma perché la fluidità non ne è la caratteristica principale. Del resto, è un po' la stessa percezione che a me dà l'ascolto della lingua araba.
È forse per questo che ho trovato particolarmente fastidioso il doppiaggio; o forse era la traduzione a risultare inappropriata (fors'anche perché la sceneggiatura originaria doveva essere a tratti impossibile da rendere in italiano). Certo però alcune espressioni messe sulla bocca di queste donne (e non scritte in un sottotitolo) mi sono sembrate del tutto stridenti con la loro fisicità e la loro gestualità.
Il film è una caramella dal cuore tenero e dal sapore speziato. Può piacere oppure no.
A me ha dato una certa soddisfazione! ;-)
Voto: 3,5/5
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