- Anno: 2011
- Durata: 110'
- Distribuzione: Eagle Pictures
- Genere: Drammatico
- Nazionalita: Francia, Libano, Egitto, Italia
- Regia: Nadine Nabaki
- Data di uscita: 20-January-2012
Scegliamo un film non nuovo, per la rubrica di questo mese, per riflettere sulla convivenza pacifica tra culture e religioni diverse, e sul ruolo delle donne verso una pace possibile.
E ora dove andiamo? è del 2011, ormai, ma nessuno meglio di Nadine Labaki sa rendere questo tema attraverso sorellanza, solidarietà, confidenza, e i confini fragili all’interno di un gruppo, che noi giudicheremmo invasivi, ma che qui danno forza e calore. Lei era alla sua seconda prova, dopo Caramel (2007), e non ci sono dubbi che i momenti migliori delle sue storie sono proprio quelli di un’intimità tutta femminile.
Amale (Nadine Labaki) gestisce un locale frequentato da uomini e donne; non più il salone di bellezza di Caramel, quel setting terapeutico in cui le donne si prendevano cura di se stesse, delle amiche e delle clienti. Ora un villaggio intero ruota attorno al locale di Amale, alla chiesa e alla moschea. Simultaneamente, al mattino suonano le campane e si alza la voce del muezzin, insieme ai belati profani delle capre che si confondono con i suoni più sacri. Luogo microscopico di convivenza precaria tra due religioni, in cui basta un niente per scaldare gli animi, perché si liberi l’aggressività latente.
Che stupidi gli uomini e che bambini! Sempre pronti a muovere le mani per “giocare alla lotta”, e disseppellire le armi. Ma ci sono loro, le donne, Amale in testa, che troveranno la maniera di dissuaderli. La prima scena le vede incedere compatte (cristiane e musulmane insieme), verso le tombe di figli fratelli mariti, epicamente, tutte vestite di nero e con un ritmo cadenzato da coro greco. Sembrano Le Troiane di Euripide, ma per fortuna non sono schiave. Tornano a casa, dai mariti dai figli dai fratelli, dagli uomini a cui con ogni mezzo devono e vogliono salvare la vita.
C’è la madre che riesce a nascondere la morte di un figlio per salvare l’altro, l’innamorata che favorisce l’incontro tra il suo amato ed una donna straniera per distrarlo dalla guerra: tutte insieme inventano strategie insolite, creative e divertenti.
E ora dove andiamo? è dall’inizio alla fine lo smascheramento dell’inutilità della guerra, che le donne coprono di ridicolo, come solo loro sanno fare. “Le donne trovano sempre la soluzione, con la seduzione e con qualcos’altro” recita il trailer del film: ma è davvero sempre così? Davvero le donne sanno sempre proporre alternative pacifiche? E pacifiste?
Nadine Labaki ritrae una situazione estrema, quella del villaggio circondato da mine, dove l’inventiva tutta femminile può essere l’unica risorsa. E così, non solo si riesce a scongiurare lo scontro tra gli uomini, amati anche nelle loro debolezze, ma ci si compatta in un’esperienza di intimità e di affiatamento che scalda il cuore. Anche quello degli spettatori, che possono godere dell’affettività tra donne, non sempre così scontata nella vita.
Sono lontani infatti i tempi in cui si credeva senza incertezze che donna fosse sempre e comunque sinonimo di calore affettivo. Esce in Italia, lo stesso anno del film della Labaki, Il mio domani di Marina Spada. Una storia fredda fatta di silenzi interrotti solo dai tacchi alti della tenuta aziendale della protagonista, Monica (Claudia Gerini). Formatrice d’assalto, Monica vive le sue giornate con una carriera solida ed una vita affettiva desolatamente spenta. Deve aspettare la morte del padre per una consapevolezza tardiva, perché si veda un po’ di sole, ma solo alla fine del film, che per il resto riproduce una Milano molto più gelida di quanto non sia in realtà.
Nello stesso periodo arriva dall’America una storia di donne diametralmente opposta a quelle mediorientali della Labaki: The help di Tate Taylor, a dirci che donna, anche nel passato, non sempre coincide con armonia e generosità. Niente di originale rispetto alla narrazione del romanzo omonimo: le donne sono rigidamente divise in due categorie. Le domestiche nere e la scrittrice Eugenia ‘Skeeter’ Phelan, la ragazza bianca che vuole scrivere la loro vita, sono la parte buona della società americana degli anni Sessanta; dove le ricche borghesi bianche, invece, con in testa la perfida Hilly, manipolatrice di tutte le amiche, sono cattive, razziste e oltre modo insensibili, in questa stolta società benestante, poco prima che fossero abolite le leggi segregazioniste.
Al film di Nadine Labaki, al suo ritmo brioso, nonostante parli di guerra, quindi, il merito di indicarci una via che forse si è perduta: quella di una possibile risposta femminile al disagio di un mondo che sa solo anteporre la violenza alla costruttività di un sapienza millenaria. Una sapienza, la sua e delle donne orientali, che si sposa delicatamente alla spregiudicatezza moderna. “Le donne trovano sempre la soluzione, con la seduzione, e con qualcos’altro”. E’ quel qualcosa d’altro, appunto, l’aspetto gradevolissimo di questa storia.
Le canzoni, scritte dal marito della regista (quel tenero e un po’ tontolone poliziotto innamorato in Caramel) amplificano gli stati d’animo: una è struggente e sensuale, l’altra divertentissima, a sottolineare come, qui e nella vita, il dramma è alternato alla leggerezza, e alla creatività delle scelte.
E poi è così bella, Nadine Nabaki; soprattutto in questo secondo film, dopo la sua maternità, con pochi chili e tanta dolcezza in più . “La sfida è usare la propria forza con morbidezza”, ha detto allora in un intervista. Speriamo che sappia mantenerla la sua splendida morbidezza. Qualcosa ci dice di sì, perché, pur corteggiata dal cinema internazionale, dopo l’episodio O milagre nel film collettivo Rio, Eu Te Amo dell’anno scorso, non è ancora tornata alla regia. Vien da pensare che stia maturando qualche progetto che sappia parlare un’altra volta del cuore e delle emozioni femminili. Noi aspettiamo.
Margherita Fratantonio