Ricordo esattamente il giorno in cui ho pensato che essere donna è meglio che essere uomo.
Avevo sei anni. Ero andata con mia madre nel bar dove si trovavano sempre gli amici di mio padre. Erano tutti seduti intorno al tavolo degli habitué, lo Stammtisch – come si dice in Alto Adige. Ci siamo avvicinate e tutti ci hanno salutato con grandi sorrisi e poi due di loro gentilmente si sono alzati e hanno guardato mia madre: “Luisa – hanno detto – siediti qui”. In quel momento ho pensato che essere una donna era bello perché non dovevi stare in piedi in un bar e perché c’era sempre un uomo che ti faceva accomodare.
La sedia delle donne
Solo recentemente mi sono resa conto quanto simbolica sia la storia di una sedia che un uomo gentilmente cede a una donna. È stata Sheryl Sandberg, COO di Facebook, a raccontarlo molto bene nel suo libro “Facciamoci avanti” e in un video di Ted del 2010 che ha girato il mondo. La Sandberg dice che dato un tavolo per una riunione, mentre gli uomini vanno diretti a sedersi nei posti centrali, le donne tendono a sedersi in fondo, in un angolo, anche se il loro ruolo consentirebbe loro di stare in posizioni avanzate. Lo fanno per educazione, per condizionamento ambientale, perché mentre un uomo che va avanti è accettato, una donna pare un po’ troppo ambiziosa, un po’ arrogante, un po’ capetta. D’altra parte gli uomini sanno proporsi meglio, parlano di sé con encomio, mentre le donne, sono piuttosto autocritiche e vedono i propri limiti prima ancora che le proprie qualità.
La storia delle sedie è davvero sintomatica. Perché leggendo la Sandberg, mi sono venuti in mente altri due episodi, legati al come prendere posto nelle riunioni.
Uno riguarda una riunione in un’organizzazione cui avevo partecipato, dove un uomo, ultimo entrato, neofita e inesperto, entrato in sala era andato direttamente a sedersi al tavolo dei “capi”, senza nemmeno verificare se per lui lì era previsto un posto. Non che tutti gli uomini siano così, è chiaro. Ma, ecco, mi aveva colpito questa schietta piccola prepotenza.
L’altro episodio, opposto a questo, mi vede come giovane nuova e inesperta segretaria della Coppa del Mondo di Sci alla prima riunione di Club5, l’associazione dei classici di Coppa del Mondo. Ricordo una sala con un tavolo e sedie intorno e ricordo questa sala occupata solo da uomini e anche decisamente più vecchi di me (io ero effettivamente molto giovane). C’era anche il mio babbo. Tutti si presero posto intorno al tavolo e per me non c’era posto. E, timidissima, mi accomodai su una sedia ai lati, in un angolo. Nessuno mi offrì di sedermi al tavolo. Nemmeno mio padre, che non lo fece perché non voleva favorire la figlia di fronte agli altri. Non voleva imporsi. Ogni tanto qualcuno si girava e mi guardava e io ero davvero imbarazzata. Oggi sono vicepresidente di questa associazione e siedo al tavolo principale. Eppure, pur essendo membro dell’ufficio di presidenza, in quanto unica donna, sono ancora quella che “da segretaria” deve sistemare il computer, collegare i cavi etc. Gli uomini colleghi, o perché non sanno farlo o perché non tocca loro farlo, lasciano a me questo compito. Nemmeno il segretario, che è uomo, se ne preoccupa. Io sorrido, perché conosco l’ambiente e so che il mondo sportivo è davvero molto maschile. Ma so anche che dentro questo lasciar collegare il computer a me ci sono strati e strati, anche inconsapevoli, di pregiudizi.
Discriminazioni e tabù
Non è solo il mondo dello sport a essere così maschile. Una rivista tedesca di arte – “Art” – è uscita in autunno con un’edizione dedicata alle donne. L’ho comprata perché mi ha colpito il titolo: “Le opere delle donne sono meno quotate di quelle degli uomini.”
E pare incredibile che oggi ciò accada ancora e che sia davvero necessario inserire quote rosa per agevolare l’entrata nel mondo del lavoro alle donne. E ancor più incredibile è che il tema sia tabù, che crei un certo disagio quando viene affrontato dentro le organizzazioni, tra i colleghi e le colleghe.
Ma nonostante le quote rosa, accade qualcosa’altro, di strano. Partiamo insieme agli uomini e a un certo punto ci fermiamo. Ho spesso pensato che si trattasse di problemi di famiglia. Con i bambini diventa difficile armonizzare casa e lavoro. Ma dopo queste letture e in base alle mie esperienze mi sono resa conto che il problema è più profondo.
Vincere o morire?
Il problema è lo stile di leadership che secoli e secoli di gestione del potere maschile hanno plasmato in una certa direzione. Gli uomini, inoltre, vengono cresciuti con una pressione sconosciuta alle donne. Nella rivista Art, la psicologa canadese, Susan Pinker , scrive che gli uomini tendono a vivere sempre “in guerra” e affrontano i conflitti in modo assoluto. Mors tua vita mea. A questo proposito è molto interessante il dibattuto in Alto Adige intorno al nuovo presidente della Provincia, che tra i suoi obiettivi ha anche quello di provare a instaurare un confronto democratico che non preveda assoluti, ma piuttosto si apra alla diversità. Una bella scommessa, soprattutto in una terra di montagna, dove la tradizione – o meglio – il conservatorismo è più radicato.
Ma per tornare al tema della leadership, sempre la psicologa canadese sottolinea che le donne, pur mettendo serietà e professionalità nel lavoro, non sono disposte a pregiudicare la propria vita per battaglie professionali. Cioè: nella vita c’è altro, non solo il lavoro e non solo la famiglia. Nella vita c’è un esistenza intera. Ricordo molto bene quando Tania Cagnotto alle Olimpiadi di Londra, delusa perché non aveva vinto nemmeno una medaglia, disse: “Era un sogno, ma la vita è un’altra cosa”. Forse è solo una coincidenza, ma questa frase l’ha pronunciata una donna.
Decidere per gli altri
Rossana Rossanda nel suo libro: “La ragazza del secolo scorso” va ancora oltre questa lettura ed entra nelle viscere della diversità. Ad un certo punto racconta che nel 1960, quando lei era nella segreteria della sezione milanese del il PCI, dovevano organizzare una manifestazione abusiva e tutti sapevano che se la manifestazione ci fosse stata, poteva scapparci il morto. Lei, insieme ai colleghi uomini, doveva decidere, ma avrebbe preferito non farlo: “Mi venne in gola un ancestrale: non tocca a me, ero una donna, quella cui è più naturale raccogliere i morti che impedirli, e tanto meno decidere l’eventualità”. In quel momento la Rossanda scoprì il suo essere donna, il suo lato femminile:
Ogni volta che non sono in gioco io sola – sento uno scarto, un esitare, un ritirarmi. Non credo che succeda a un maschio, il decidere per gli altri sta nel suo dna. Da allora quando si tratta di scelte forti nella sfera pubblica riconosco l’impulso a fare un passo indietro. E non mi pare una virtù pacifista, ma il riflesso di chi è stato per secoli fuori dalla storia. La materia di cui sono fatta ha questa grana. Combattiva ma seconda.
Conosco amiche donne che a un certo punto hanno rinunciato. Erano giunte in posizioni di leadership, ma la competizione aveva raggiunto tali livelli di tensione, da farle decidere di ritirarsi. Il gioco – come si dice nel calcio – era maschio. Troppo maschio. E mentre per gli uomini quel gioco era tutto, per le mie amiche non lo era, piuttosto esso negativizzava tutto il resto che apparteneva alla loro vita.
Le consuetudini che ci condizionano
E’ chiaro allora che non basta sedersi sulla sedia che ci meritiamo. Ed è anche chiaro che non è che gli uomini, in quanto diversi, siano dei bruti e noi delle delicate figure che vogliono portare armonia. E, di questo sono certa: la biologia centra fino a un certo punto. Sono la storia, l’educazione, le aspettative che tendono a far stare le donne un passo indietro. D’altra parte, se ne è parlato in questi anni di crisi: perdere il lavoro per un uomo è molto più drammatico che per una donna.
Per questo motivo, per questi strati su strati che ci condizionano, credo che il tema donna e management e donna e leadership abbia bisogno di ancora molte discussioni, di confronti, di aperture, di attacco – pacifico – ai tabù. E come dice Sheryl Sandberg: di azione. Credo che vadano per primi eliminati gli assoluti e le generalizzazioni. E credo che vada alimentata la cultura dell’ascolto. E credo anche che parlare di donne e management non dovrebbe mettere in imbarazzo nessuno, soprattutto non dovrebbe far sentire a disagio gli uomini o in difetto le donne. Anzi, tutto ciò dovrebbe spingerci ad ascoltare e cambiare certe nostre pratiche, maschili e femminili , indotte dai modelli comportamentali in cui siamo cresciuti.
I luoghi comuni dicono che noi siamo empatiche, ma a volte troppo empatiche. Che gli uomini sono più diretti e più schietti, ma talvolta sono troppo duramente diretti. Noi ci sediamo in fondo, loro davanti. Noi ascoltiamo e non diciamo la nostra, loro parlano e impongono la loro linea. Loro agiscono, noi osserviamo. Loro sono intuitivi, noi analitiche. Un’organizzazione ha bisogno di tutto questo e di tutte le sfumature della tipologia uomo e della tipologia donna. Il lavoro ha bisogno di diversità per crescere.
Leadership femminile
Domani sarò a Treviso a un dibattito proprio su questo tema visto nel mondo dello sportbusiness. Le donne vincono più medaglie, ma poi a governare le federazioni sono gli uomini.
È dunque (im)possibile una leadership femminile? Come abbattere questo muro fatto di consuetudini maschili? Se il lavoro che svolgiamo ci piace, perché dovremmo ritirarci? O perché, per rimanere, dovremmo adottare modi maschili?
La soluzione, credo, stia nella reciprocità. Io consiglio di cercare alleati uomini che accolgano questo nuovo femminismo con rispetto e con la volontà di crescere e di migliorarsi. E di lavorare insieme, giorno dopo giorno, nel rispetto reciproco, ma anche nell’abbattimento condiviso dei tabù.
E un buon inizio potrebbe essere questo: partire dalle definizioni dei ruoli, come consiglia la Presidente dell’Accademia della Crusca in questa bella intervista.
Per approfondire:
- Ted Talks – Intervista a Sheryl Sandberg (dicembre 2013)
- Direttrice Direttrice (scrittura e leadership femminile) dal blog Il mestiere di scrivere
- Lean in – Organizzazione promossa da Sheryl Sandberg