E rimasero impuniti: da Casillo e Baby Doll a Giorgio Di Nunzio, tra camorra, P2 e Vaticano

Da Antonellabeccaria

In questa scia di morti e delitti, ognuno con contatti più o meno stretti con il delitto Calvi, va poi aggiunto il già citato Vincenzo Casillo, l’altro nome indicato da Francesco Di Carlo e altri collaboratori di giustizia come uno degli esecutori materiali dell’omicidio del banchiere. Conosciuto anche con il soprannome di «’o Nirone» per via della carnagione scura e della stazza imponente, fu tra i primi ad aderire negli anni Settanta alla Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo e lo sostituì quando «’o professore» finì in galera rappresentandolo in occasioni rilevanti.

Tra queste, gli affari legati alla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 in Irpinia, le trattative con cosa nostra per gestire gli affari dei clan e il tentativo di mediazione per interrompere la guerra di camorra combattuta contro la Nuova Famiglia dei Nuvoletta, dei Bardellino e di altri clan emergenti. Ebbe inoltre un ruolo nella liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania sequestrato il 27 aprile 1981 dalle Brigate Rosse e liberato ottantanove giorni più tardi, dopo che della faccenda si occuparono prima i servizi civili e poi l’intelligence militare avvalendosi di mediatori come Francesco Pazienza e di camorristi, come quelli legati a Cutolo. Casillo, secondo l’istruttoria e i processi degli anni Ottanta e Novanta, da latitante accompagnò agenti dei servizi in carcere per parlare con Cutolo e per evitare la cattura gli venne fornito a titolo di copertura un lasciapassare del Sismi.

Il collegamento tra «’o Nirone» e Calvi sarebbe stato ancora una volta l’assolto Pippo Calò, secondo quanto dissero i pentiti, che avrebbe dato a Casillo un incarico molto delicato: doveva portare il banchiere sull’imbarcazione ormeggiata lungo le rive del Tamigi. Il boss lo fece, aggiunsero, e una volta arrivati qui gli fece segno di andare a poppa e di accomodarsi. Quando Calvi eseguì, Casillo lo raggiunge, gli si mise alle spalle e lo strangolò con la corda arancione utilizzata poi per simulare il suicidio per impiccagione. Vero o falso? Verissimo, dissero i collaboratori di giustizia. Falso invece secondo la Corte che ha sentenziato al processo di primo grado per l’omicidio Calvi. Falso perché non si sarebbero trovati riscontri e perché chi parlava non lo faceva per conoscenza diretta, ma riferiva informazioni ricevute da altri. Uno di questi era l’avvocato Enrico Madonna, il legale di Cutolo a cui Casillo avrebbe confidato la sua impresa da killer.
A processo non è stato possibile chiedere conferma a Madonna perché venne assassinato nell’ottobre del 1993 a Cervinara, in provincia di Avellino, dove si trovava agli arresti domiciliari dopo un periodo di galera all’Asinata. Aveva 50 anni e stava parlando con un amico davanti a casa sua quando arrivò un’auto da cui partirono colpi di pistola e fucile. Madonna morì all’istante.

Parlare con Casillo è stato altrettanto impossibile. Fu ucciso anche lui. Era il 29 gennaio 1983, il malavitoso aveva 39 anni e venne assassinato nel quartiere romano di Primavalle, in via Clemente VII, a pochi passi da via di Forte Boccea, dove si trova il carcere militare. A ucciderlo fu la sua vettura, una Volkswagen Golf verde trasformata in un’autobomba a suon di tritolo. Erano le 9 e mezza del mattino e per innescare l’esplosione fu sufficiente inserire la chiave nel blocco di accensione e girarla. Con lui c’era anche Mario Cuomo, il ventiduenne che faceva da guardia del corpo a Casillo (da non confondere con Domenico Cuomo, il «boia della camorra») e che perse le gambe nell’attentato. La fidanzata del boss, Maria Matarazzo, una ballerina conosciuta con il soprannome di Baby Doll, quel mattino non era con loro perché andata a far compere con la donna di un altro capo della camorra, riparato a Roma per sfuggire agli investigatori.

All’inizio quel delitto fu rivendicato dalla Nuova Famiglia, ma il messaggio degli anticutoliani non venne ritenuto attendibile e lo sguardo si rivolse proprio verso «’o professore» e i suoi. Si disse ai tempi che Casillo era stato giustiziato perché depositario di troppi segreti della NCO e dei suoi rapporti con le istituzioni sia a livello locale che nazionale. Ma con il tempo la responsabilità di quel delitto fu palleggiata tra molti clan e attribuita a numerosi sicari. Solo nell’ottobre 2007 venne condannato il boss del nolano Ferdinando Cesarano, catturato nel 2000 dopo che due anni prima era evaso attraverso un tunnel dall’aula bunker di Salerno, dov’era sotto processo con un altro malavitoso per riciclaggio di denaro. Il delitto Casillo, secondo la sentenza, faceva parte dei regolamenti di conti tra NCO e Nuova Famiglia.

Dopo la morte del luogotenente di Cutolo, diverse altre persone legate al suo entourage fecero una brutta fine. A iniziare proprio da Baby Doll. Come raccontano Mario Guarino e Fedora Raugei nel libro Gli anni del disonore, «la compagna di Casillo aveva detto che l’uomo era stato ucciso perché conosceva i retroscena dell’assassinio di Roberto Calvi. Dopo pochi giorni [...], Dolly viene sequestrata e [...] murata in un blocco di cemento. L’episodio (2 febbraio 1984) verrà rievocato nel corso della trasmissione Rai Telefono giallo, a cura di Corrado Augias, del giugno 1988, dal fratello del banchiere Calvi».

Procedendo su questa scia di delitti, va citata poi la fine che fa Giorgio Di Nunzio, assassinato, come Sergio Agelli Vaccari, il 16 settembre 1982. Questa volta l’omicidio avvenne a Roma e la vittima era un vaticanista che lavorava per Il Borghese. Su di lui circolavano voci di varia natura, alcune delle quali lo indicavano come uomo legato ai servizi, ed era nell’orbita del cardinale Egidio Vagnozzi, ex nunzio vaticano negli Stati Uniti e dal 1968 alla sua morte (avvenuta il 26 dicembre 1980) presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede. Di Nunzio era vicino anche al costruttore piduista Mario Genghini, definito dai giornalisti Jonathan Marshall, Peter Dale Scott e Jane Hunter «uno dei principali investitori esteri in Nicaragua» proprio negli anni in cui Calvi dirottava qui i suoi affari per sfuggire ai controlli della Banca d’Italia.

Ma il suo impero finanziario non si era limitato a questo paese. Oltre ad aver edificato il palazzo romano sede dell’ENI, Genghini aveva lavorato in Arabia Saudita costruendo l’università di Riad, nei Paesi del Mediterraneo e in Africa. Ma nel giugno del 1980 arrivò l’istanza di fallimento e un mandato di cattura internazionale che lo portò in carcere un anno e mezzo più tardi, catturato mentre si trovava a Montecarlo. Accusato di bancarotta fraudolenta, l’imprenditore fu assolto nel settembre 1995, un mese prima di morire per una crisi cardiaca.

Tornando a Di Nunzio e alla sua morte impunita, una possibile causa potrebbe andare ricercata nei collegamenti con il caso Calvi. E in particolare, in un fascicolo di cui il giornalista era entrato in possesso e che era stato redatto dal cardinale Vagnozzi su richiesta di Giovanni Paolo I per cercare di capire quali fossero i rapporti tra Michele Sindona e il potente vescovo Paul Marcinkus. Il banchiere milanese, saputa dell’esistenza del fantomatico dossier, avrebbe pagato a Di Nunzio un milione e duecentomila dollari (all’inizio gliene erano stati chiesti tre) e lo avrebbe custodito negli ultimi mesi di vita perché funzionale, insieme ad altra documentazione, al suo piano: costringere lo IOR a salvare il Banco Ambrosiano dal crac pena la pubblica diffusione dei documenti che attestavano le malefatte dell’istituto bancario della Santa Sede. Fatto fuori Di Nunzio, però, il dossier, sempre che sia esistito, è scomparso nel nulla. E morto anche Vagnozzi, nessuno ha potuto più saperne nulla da fonte diretta.


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