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E se Dio fosse nero?

Creato il 15 dicembre 2013 da Tabulerase
child-4Cronaca dall’inferno dell’apartheid, dove anche molta parte della Chiesa cattolica predica la discriminazione.

All’estrema punta meridionale dell’Africa le montagne si elevano per poi piombare a picco sul mare. Le spiagge sono bagnate dall’Atlantico violento e dal mite Oceano Indiano. Lì, appollaiata sulle pendici montagnose del Capo di Buona Speranza, s’erge l’orgogliosa Città del Capo, monumento eretto al coraggio e al vigore di olandesi, inglesi, francesi ed africani che hanno fondato una delle società più ricche e più attive del mondo.

Mentre il nostro aereo sorvolava la città bellissima nel sole splendente, tutti sorridevamo e chiacchieravamo, riscaldati da tanta bellezza e dalla fierezza davanti a ciò che l’uomo era riuscito a realizzare. Poi una voce comunicò: «Stiamo volando su Robben Island» e vi fu un silenzio glaciale. Perché Robben Island è la dimora di oltre 2000 prigionieri politici del Sudafrica, bianchi e neri, professori d’università e semplici agricoltori, difensori della non violenza e agitatori rivoluzionari, tutti ormai affratellati dalla stessa tragica sorte per una sola causa: perché essi credono nella libertà e perciò hanno osato combattere la politica ufficiale del loro governo, l’“apartheid”.

Apartheid, la parola afrikaaner per “segregazione”, separa rigidamente le razze del Sudafrica: tre milioni di bianchi, dodici milioni di neri e due milioni di indiani e di gente di colore (di sangue misto). È l’apartheid che permette alla minoranza bianca di dominare e di sfruttare la maggioranza non bianca. Chi nel Sudafrica ha la pelle nera:

  • Non può prendere parte alla vita politica e non può votare;
  • Può esercitare solo quei mestieri che i bianchi rifiutano;
  • Ha salari inferiori dal 10 al 40 per cento a quelli percepiti da un bianco per un uguale lavoro;
  • Non può possedere terra tranne in una zona limitata;
  • Può vivere insieme alla propria famiglia solo se il governo glielo concede esplicitamente;
  • Per i suoi figli il governo spende solo un decimo di quanto spende per l’educazione dei ragazzi bianchi;
  • È, per legge, un cittadino inferiore, dalla nascita fino alla morte;
  • È totalmente segregato persino nella maggior parte delle funzioni religiose.

Per cinque giorni in questa estate mia moglie Ethel ed io abbiamo visitato il Sudafrica, parlando con ogni genere di persone che rappresentavano tutta la gamma delle opinioni. Dovunque siamo andati, Pretoria, Città del Capo, Durban, Stellenbosch, Johannesburg le discussioni ed i dibattiti vertevano sul principio dell’apartheid. Il nostro scopo non era quello di criticare semplicemente ma di vedere se, discutendo insieme, potevamo far prevalere la ragione sui pregiudizi ed i miti.

All’università di Natal, a Durban, m’è stato detto che la Chiesa alla quale appartiene la maggioranza della popolazione bianca insegna l’apartheid come un principio morale. Un nostro interlocutore ci ha dichiarato che solo poche chiese permettono agli africani neri di pregare insieme ai bianchi perché la Bibbia insegna che così deve essere, dato che Iddio ha creato i neri per essere servi.

Angoscia di Paolo VI

«E se Dio fosse nero?» ho replicato. «Che succederebbe se noi, giunti in cielo dopo aver trattato i neri come nostri inferiori per tutta la vita, alzassimo gli occhi verso Dio e Dio che è là non fosse bianco? Qual è la risposta?».

Non vi fu risposta, solo silenzio.

Una settimana dopo, quando a Roma Ethel ed io fummo ricevuti da Papa Paolo VI, abbiamo discusso sul Sudafrica, sulla perdita dei diritti umani, la supremazia dello Stato, il crescente rifiuto del cristianesimo da parte degli africani neri perché, come uno di essi ebbe a dire, «il Dio cristiano odia i neri». Il viso del Papa, il tono della sua voce, i gesti delle sue mani esprimevano sgomento e angoscia. Raccontai al Papa la nostra visita alla chiesa cattolica a Soweto, il distretto di Johannesburg riservato ai negri, che egli aveva consacrato qualche anno fa. La ricordava bene. Questa chiesa non è stata autorizzata a diventare proprietaria del terreno sul quale è stata edificata ed i suoi preti sono tenuti sotto costante pressione da parte del governo.

Come per tutti gli africani neri, la vita della gente di Soweto dipende dalle segnalazioni scritte su un lasciapassare individuale che ognuno deve portare sempre con sé, come un libretto di circolazione delle automobili ad uso di esseri umani. Farsi trovare senza questo documento o con uno che non sia stato debitamente controfirmato da un datore di lavoro può comportare sei mesi di prigione o l’esilio in uno di quei posti aridi ed orribili che si chiamano “riserve indigene”.

Ad eccezione di una piccola zona, nel resto del paese la moglie di un africano nero deve avere un lasciapassare speciale per poter convivere con il marito, salvo che ambedue trovino un lavoro nella stessa città. Altrimenti gli può far visita per un massimo di 72 ore, ma in tal caso deve fornire una dichiarazione scritta dei motivi della visita e fare la fila per ottenere il documento. Questa legge dei lasciapassare provoca una pioggia di arresti: oltre mille al giorno. Fino ad oggi vi sono stati cinque milioni di condanne tra la popolazione non bianca.

Di tanto in tanto gli oppressi lanciano un grido eloquente, come fece uno di essi, condannato per aver provocato uno sciopero (il che è illegale per gli africani neri). «Può qualcuno stupirsi», egli domandò «se in simili condizioni un uomo diventa un fuorilegge? Ci si può stupire che un uomo, messo fuorilegge dal suo governo, sia pronto a condurre la vita di un fuorilegge?».

Quel tale uomo era ora sotto di noi, a Robben Island, condannato a vita. E mentre noi ritornavamo verso lo scintillante formicaio di Città del Capo, io riflettevo sul dilemma del Sudafrica: un paese ricco di promesse e di possibilità enormi, di aspirazioni e realizzazioni; eppure allo stesso tempo un paese pieno di repressioni, di tristezza, di oscurantismo e di crudeltà. Un paese che ha prodotto grandi scrittori, ma il più celebre, Alan Paton, autore di Il Phalarope è giunto troppo tardi e Piangi, paese amato, può recarsi all’estero solo se accetta di non far mai più ritorno in patria. Il capo della tribù degli Zulù, Albert Luthuli, ha avuto il Premio Nobel della pace, ma è relegato in una piccola lontana piantagione ed i suoi compatrioti rischiano la prigione se citano le sue parole. È un paese che ha, tra i tanti che ho visitato, i migliori studenti, intelligenti, coscienti, votati ai principi della democrazia e della dignità umana, ma molti di essi subiscono costantemente vessazioni e sono perseguitati dal loro governo.

Alcuni di questi giovani, membri dell’Unione Nazionale degli Studenti del Sudafrica che conta 20.000 aderenti, avevano invaso l’aeroporto Malan a Città del Capo nel momento in cui il nostro aereo atterrava. L’Unssa, tramite il suo coraggioso presidente, lo studente Ian Robertson dell’università di Città del Capo, mi aveva invitato a pronunciare il discorso della “Giornata del Giuramento 1966”. L’anniversario che quest’anno cadeva il 6 giugno conferma l’impegno dell’associazione, fondata 42 anni fa, a rispettare la democrazia e la libertà senza discriminazioni di lingua, razza o religione. Robertson non era all’aeroporto. Al momento del nostro arrivo egli si trovava nel suo appartamento a Città del Capo; gli era stato vietato di avere più di una persona alla volta nella sua stanza, di essere citato sotto qualunque forma sulla stampa, di prendere parte alla vita politica o mondana e, pur essendo studente in legge, di mettere piede in un tribunale salvo in veste di testimone con mandato di comparizione. Era stato, cioè, messo “al bando” per cinque anni dal ministro della Giustizia con il pretesto non meglio specificato di avere, in qualche modo, assecondato gli obiettivi del comunismo. Ma era convinzione generale che l’unico reato del giovane Robertson era stato quello di invitarmi a prendere la parola.

Nello stesso pomeriggio feci una visita al mio ospite nel suo appartamento. Gli regalai il libro del presidente John Kennedy Profiles in Courage con una dedica per lui da parte di Jacqueline Kennedy, «con ammirazione». Mi venne in mente la cena del giorno prima, subito dopo il mio arrivo a Pretoria, con uomini politici, direttori di giornali e uomini d’affari, tutti genuinamente meravigliati che il mondo occidentale potesse criticare il Sudafrica, paese così saldamente anticomunista.

I veri assediati

«Ma che cosa significa essere anticomunisti», avevo domandato loro, «se il vostro sistema politico nega il valore dell’individuo e rimette tutto il potere nelle mani dello Stato, esattamente come fa il comunismo?».

Essi risposero che gli «unici problemi» del Sudafrica erano di carattere interno.

«Dovunque si manifestino, crudeltà e odio sono cose che riguardano gli uomini di tutto il mondo», dissi, «e troppo facilmente il Sudafrica potrebbe far precipitare nel disastro l’intero continente, anzi, addirittura il mondo intero».

«Ma lei non comprende», mi risposero, «che siamo assediati». Potevo invece comprendere questa sensazione. Gli Afrikaaner, d’origine olandese, che rappresentano il 60 per cento della popolazione bianca, hanno lottato contro la dominazione straniera dal 1806 al 1961. Nel secolo scorso i Voortrekker (i pionieri) avevano valorizzato vaste zone nuove avanzando con i loro carri trainati da buoi, ed i loro discendenti avevano partecipato alla guerra dei Boeri.

Ma chi in realtà era assediato? I miei commensali che conversavano tranquillamente fumando il sigaro e bevendo cognac? O Robertson e Paton e Luthuli? O la popolazione indiana espulsa dal Distretto 6, un quartiere di Città del Capo dove aveva vissuto da decenni, mentre i capi erano stati “messi al bando” per cinque anni per aver protestato?

Infatti il ministro della Giustizia può privare un uomo del suo lavoro, delle sue entrate, della sua libertà e – se si tratta d’un nero – anche della sua famiglia. È sufficiente una parola del ministro per mettere in prigione chiunque per un periodo fino a sei mesi dichiarandolo “testimone materiale” senza specificare di che cosa sia stato testimone. L’arrestato non ha il diritto di consultare un avvocato o la sua famiglia. È persino reato informare una qualunque persona di essere detenuto, senza un’esplicita autorizzazione a divulgare il fatto. L’individuo sparisce, semplicemente, e può essere messo in cella di isolamento per tutti i sei mesi. Non v’è tribunale che lo possa ascoltare o ordinarne il rilascio. E – tocco finale – egli può essere rimesso in prigione immediatamente dopo essere stato rilasciato. Molte persone detenute in base a questa legge o a quelle che l’hanno preceduta, si sono suicidate.

Questo meccanismo repressivo è coronato dall’istituto della “interdizione” o “bando”. Con la sola sua autorità il ministro della Giustizia può interdire ad una persona di partecipare alla vita pubblica, di lasciare il proprio villaggio e la propria dimora. Alle vittime non è concesso di rivolgersi ad un tribunale per contestare l’ordine di interdizione.È illegale pubblicare le dichiarazioni di una persona colpita da questo “bando”. Ad un operaio può essere vietato di mettere piede in una qualsiasi fabbrica; ad un sindacalista può essere proibito di entrare in un edificio nel quale ci sia la sede di un sindacato. Un partito politico può essere distrutto con la messa al bando dei suoi capi ed è precisamente ciò che è accaduto al partito liberale di Alan Paton. I suoi leader non possono legalmente comunicare tra di loro e sono sottoposti costantemente ai controlli della polizia.

Tutto questo immenso potere è nelle mani di Balthazar J. Vorster, il ministro della Giustizia il quale, sia detto per inciso, è stato internato nel Sudafrica durante la seconda guerra mondiale a causa della sua attività in seno ad un’organizzazione terroristica di stile nazista che molestava gli alleati britannici.

Queste cose mi passavano per la mente quella sera mentre mi trovavo in mezzo a 18.000 studenti, all’università di Città del Capo. Nel mio discorso ammisi che gli Stati Uniti, come altri paesi, avevano ancora molto da fare per soddisfare le promesse contenute nella loro Costituzione. Ma ciò che importa, dissi, è che noi facciamo ogni sforzo in questa direzione. E domandai se il Sudafrica, e soprattutto i suoi giovani, era disposto a collaborare in questa lotta:

«C’è della discriminazione razziale a New York, c’è l’ineguaglianza dell’apartheid nel Sudafrica, c’è la schiavitù nelle montagne del Perù. La gente muore di fame nelle strade dell’India, un ex primo ministro viene sommariamente giustiziato nel Congo, alcuni intellettuali sono gettati in prigione in Russia, in Indonesia migliaia e migliaia di persone vengono massacrate, dovunque le ricchezze vengono dilapidate in armamenti. Sono mali diversi, ma sono tutti opera dell’uomo. Sono mali che rispecchiano le imperfezioni della giustizia umana, l’inadeguatezza della compassione umana, l’insufficienza della nostra sensibilità per le sofferenze dei nostri simili… E pertanto richiedono qualità di coscienza e capacità d’indignarsi a tutti, una comune determinazione di eliminare le sofferenze inutili del nostri fratelli…».

La replica di John Daniel, il vicepresidente della Unssa, fu eloquente e coraggiosa: «Lei ci ha dato una speranza per l’avvenire. Lei ha rincuorato la nostra decisione di non darci tregua fino a quando la libertà non sia stata restaurata non solo nelle nostre università, ma nel nostro paese».

L’obbligo scolastico

Il giorno dopo parlai all’università di Stellenbosch, da dove sono usciti, tutti tranne uno, i primi ministri del Sudafrica. Situata in una vallata verde e piacevole, questo primo centro dell’indipendenza afrikaaner è oggi il vivaio della classe intellettuale. Tutti ci aspettavamo un’accoglienza fredda se non ostile. Ma nella sala da pranzo fummo ricevuti da un fragore da tuono prodotto dal martellamento dei tavoli con i cucchiai della minestra, che è il modo tradizionale degli studenti di applaudire. Era ovvio che anche se molti di essi non condividevano le mie opinioni, erano disposti ad uno scambio d’idee. Quando si passò alle domande, essi difesero l’apartheid sostenendo che alla fine avrebbe portato alla formazione di due nazioni, una bianca ed una nera. L’India non era stata forse suddivisa tra indù e musulmani?

Ma, domandai, i neri avevano una scelta? Perché non si era voluto consultare i neri o i popoli di “colore”? Gli africani neri rappresentano il 70 per cento della popolazione, ma gli si dà loro solo il 12 per cento del territorio, senza un porto di mare e senza una grande città. Come dovevano vivere in regioni della terra già sfruttate e senza industrie? E non si dà loro un’educazione. I bambini neri non imparano l’inglese o l’afrikaaner, ma l’insegnamento si svolge nei dialetti tribali, escludendoli dal mondo moderno. L’obbligo scolastico esiste per i bianchi ma non per i non-bianchi; così uno su 14 ragazzi bianchi giunge fino all’università, mentre solo uno su 762 neri ci arriva. Anzi, uno su tre non riceve alcuna forma di istruzione e tra coloro che frequentano la scuola solo uno su ventisei giunge fino alla scuola media, E che dire dei circa due milioni di “gente di colore”, né bianchi né neri? Essi vivono in una specie di limbo, un po’ meglio dei neri, ma molto peggio dei bianchi. Non v’è nessun progetto di dar loro della terra in proprietà; il loro futuro non contiene altro che nuove forme di asservimento e di umiliazioni.

In un’occasione precedente avevo chiesto ad alcuni direttori di giornali filogovernativi di definire il concetto di “uomo di colore”. Essi avevano riflettuto un momento e poi avevano risposto «un bastardo». Domandai allora se un figlio illegittimo di un uomo bianco e di una donna bianca fosse un essere “di colore”. Dichiararono che tutto questo era un problema complesso. Poi uno di loro affermò che era semplicemente un essere che non era né bianco né nero. Un sudamericano era “di colore”? Sì. Un indiano? Sì. Un cinese? Sì. Ma un giapponese, no. Perché il giapponese no? Perché ce ne sono tanto pochi, era la risposta. In seguito si scoprì tuttavia che il Sudafrica ha intensi rapporti commerciali con il Giappone e che quindi poteva essere più vantaggioso considerarli bianchi.

Hitler era bianco

Più tardi, all’università di Natal, l’uditorio di 10.000 persone per la prima volta includeva numerosi adulti. Parlai dell’importanza di riconoscere che un nero nasce buono quanto un bianco: «Potrebbe darsi che fuori da questa sala vi sia un uomo nero più intelligente di qualsiasi persona qui presente, è anzi possibile che ve ne siano molti». I loro applausi si dovevano interpretare come un segno che erano d’accordo.

Uno degli intervenuti sollevò un punto che era stato toccato ripetutamente, e cioè che l’Africa nera è troppo primitiva per autogovernarsi e che la violenza e il caos sono innati nel carattere africano. Io deplorai i massacri che erano avvenuti nel Congo, ma ricordai che nessuna razza e nessun popolo è esente da errori e da crudeltà: «Stalin era forse nero di pelle? Lo era Hitler? Chi ha fatto massacrare 40 milioni di persone giusto 25 anni fa? Non erano dei neri, erano dei bianchi».

Il giorno dopo passammo tre ore nel ghetto nero di Soweto. Passeggiavamo in mezzo ad una enorme folla di gente e mi trovai a pronunciare discorsi dalle scalinate di una chiesa, dal tetto d’un’automobile e in piedi su di una sedia nel cortile di una scuola. Le case a Soweto sono per la maggior parte piacevoli, certo meglio di quelle di Harlem o dei quartieri sud di Chicago. Ma Soweto è un lugubre campo di concentramento nel quale vige il coprifuoco. Esso offre pochissime distrazioni. La proprietà privata delle case non è ammessa. Chi trasgredisce una delle innumerevoli restrizioni che regolano la vita in questo sito rischia l’espulsione.

Durante cinque anni, fino al giorno della nostra visita, il mezzo milione di persone che vivono a Soweto non avevano più avuto notizie dirette del loro leader Albert Luthuli, messo al bando. Mia moglie ed io eravamo discesi all’alba in elicottero nella Valle delle Mille Colline per visitarlo a Groutville, a circa 65 chilometri nel retroterra di Durban.

È una figura d’uomo molto impressionante con un viso dai lineamenti meravigliosamente fini, forte e nello stesso tempo gentile. I miei occhi si fissarono dapprima sulla sua barbetta a punta resa tanto familiare dalle fotografie, ma presto il tratto che spiccò di più fu il sorriso che gli illuminava tutta la persona e gli occhi scintillanti e mobili. Alla parola apartheid però il suo sguardo si fece duro e si velò di sofferenza. Per poter parlare indisturbati facemmo una passeggiata sotto gli alberi e attraverso i campi. «Che cosa stanno facendo al mio paese, alla mia gente», egli sospirò. «Ma non vogliono comprendere che uomini di tutte le razze possono collaborare e che l’alternativa non può essere che un disastro terribile per noi tutti?».

Gli regalai un giradischi e alcuni dischi con i discorsi del presidente Kennedy. Egli mise il disco con il discorso di Kennedy sui diritti civili dell’11 giugno 1963 e tutti ascoltammo in silenzio. Luthuli, sua figlia, due funzionari governativi che ci avevano accompagnati, mia moglie ed io. Alla fine Luthuli, profondamente commosso, scosse la testa. I due funzionari governativi fissarono il pavimento.

Quando presi congedo dal vecchio capo, pensai ai versi di Shakespeare: «La sua vita è stata magnanima. E gli elementi si trovarono in lui così commisti che la natura poté levarsi per proclamare a tutto il mondo: “Questi era un uomo”».

Quella sera stessa, nel mio discorso finale, parlai all’università di Witwatersrand a 7000 persone sulla battaglia per la giustizia. Avevo in mente James Meredith, il coraggioso “marciatore della pace” che era stato ferito poco tempo prima in una strada nel Mississippi, quando dissi: «Nessuno pensi di lottare per gli altri. Questa è una battaglia che ognuno conduce per se stesso ed è ciò che tutti noi stiamo facendo. La regola d’oro non è il sentimentalismo, ma l’espressione di una profonda saggezza. I nostri tempi ci hanno insegnato che la crudeltà è contagiosa; è un morbo che non conosce confini di razze o di nazioni». Sottolineai che era compito del Sudafrica di risolvere i suoi problemi razziali e che tutto quanto poteva fare un estraneo era di promuovere uno sforzo comune nel proprio paese e in tutto il mondo per dimostrare che il progresso è possibile.

«Mio nonno ha avuto una vita molto difficile», dissi «e mio padre finì per abbandonare Boston nel Massachusetts a causa delle parole tracciate sui muri che dicevano “Non diamo lavoro agli irlandesi”. Tutto ciò che oggi si dice dei neri fu allora detto degli irlandesi cattolici: era gente inutile, senza valore, incapace di apprendere. Perché dovevano installarsi qui? Perché non proviamo di trovare le navi per rimandarli in Irlanda? Ovviamente non sono fatti per essere educati e certamente non potranno mai governare…».

Scendere nell’arena

Vi furono delle risate e io non potei resistere di aggiungere: «Suppongo che vi sia chi ancora oggi è di questo parere».

Ma il problema più difficile è l’ultima questione: come può esservi un dialogo autentico e quindi una speranza di trovare una soluzione, quando è il tuo avversario a dettare legge e ad agire da arbitro munito del potere di distruggerti a suo piacimento? Dissi che mi rendevo conto del terribile problema che i sudafricani dovevano affrontare ma che vi erano fondamentalmente solo due possibili alternative: fare uno sforzo o cedere.

Secondo il mio giudizio lo spirito di dignità e di coraggio non si sarebbe arreso nel Sudafrica. Malgrado tutte le difficoltà e tutte le sofferenze che avevo visto, lasciavo il Sudafrica profondamente commosso dall’intelligenza, dalla determinazione e dal freddo coraggio dei giovani e dei loro alleati sparsi in tutto il paese. Penso in modo particolare all’allegro e prode studente che stava per prendere la parola a Durban e che si rivolse agli agenti della polizia speciale presenti: «Per favore, non ascoltatemi troppo attentamente, ma se mi ascolterete, vi renderete conto che dirò delle cose formidabili». E penso a Martin Shule, un altro studente, che parlò dopo di me a Witwatersrand per dire: «È venuto il momento di gettare alle ortiche ogni timidezza autoprotettiva e di scendere deliberatamente nell’arena del pericolo per preservare la libertà del pensiero e l’indipendenza della coscienza e dell’azione che sono i retaggi della nostra civiltà. Dobbiamo ora opporci ad un ordinamento sociale ingiustificabile e lottare con energia e senza egoismi per la sua riforma».

Costoro non sono oggi al potere, ma essi sono di quella specie di uomini che possono un giorno fare del Sudafrica un paese di luce e di libertà e permettergli di occupare in pieno il suo posto nel mondo. Essi sono animati dello spirito con cui Tennyson scrisse nel suo Ulisse: «Un’unica natura di cuori eroici, resi deboli dal tempo e dal destino, ma forti della loro volontà di combattere, di cercare e di non cedere».

Bobby Kennedy – agosto 1966


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