A volerla percorrere fino in fondo, questa è una storia che sembra fatta apposta per incantare e sedurre.
Una storia meravigliosamente generosa, che ci regala suggestioni a non finire: la poesia e la pastorizia, un sottile filo che si snoda attraverso i millenni. Non mi riferisco alle tante pagine che nel tempo si sono offerte a chi ama cibarsi di letteratura, dai lirici dell’antica Grecia ai cantori di tante finte Arcadie del nostro Seicento, fino al pastore errante dei versi di Leopardi, con il suo dolce canto notturno.
No, questa poesia è parola viva, parola che scappa via, parola di pastori veri. Poco importa che si trovi tra le rocce degli Abruzzi oppure tra i deserti solcati dalle carovane dei Tuareg. La domanda del poeta di Recanati – Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? – appartiene a tutti loro. È fatta delle loro vite, segnate da albe rarefatte e da irrimediabili distanze, dalle fatiche della transumanza e dall’immobilità di meriggi infuocati.
Il pastore ha tempo per immergersi nel tempo universale, vive nel silenzio che a volte è maestro nello scolpire la parola.
C’è chi accosta la poesia dei pastori, in ogni caso la poesia popolare, a una non meglio precisata poesia naturale che i bambini, soprattutto loro, possiedono e talvolta manifestano. Viene in mente cosa Piero Citati raccontava di Tolstoi. Una volta lo scrittore russo si ritrovò a scrivere per ore e ore sotto la dettatura di due contadinelli che stava cercando di strappare all’analfabetismo. Gli pareva di scorgere il talento creatore, che era abituato a immaginare in Omero e in Puskin, personificato per la prima volta in due ragazzetti contadini: la poesia stava davanti ai suoi occhi; ed era una grande emozione vedere esteriorizzata questa terribile forza, che tante volte aveva sentito agitarsi dentro di lui.
Bello, come no. Però non mi pare un granché spacciare la poesia popolare, la poesia non scritta, per una sorta di bambinata. Il verso del pastore emerge dal lavoro e dalla meditazione. E poi perfino l’improvvisazione non si improvvisa, se così si può dire. Ha bisogno di una maestria che non si inventa, anche se difetta dell’istruzione che vantano i “veri” intellettuali.
Semmai preferisco pensarla come Ermolao Rubieri, nell’Ottocento autore di una storia della poesia popolare italiana.
Gli uomini prima di avere scritto, certamente parlarono. E anche la poesia… dee aver cominciato dallo essere popolare per poi diventare letteraria… Se i letterati possono perfezionare le favelle, quelli che le formano sono i popoli, e non è possibile che i popoli per cantare aspettassero il cenno dei letterati.
E il cenno dei letterati non serve, quando c’è da cantare il lavoro e la festa, il sudore e le stagioni, il riposo e la tavola.
Sono le voci di un coro che racconta la vita di milioni di uomini senza volto, senza nome: gocce di un fiume generoso.
Voci che rompono il silenzio, che restituiscono la parola a chi la sorte assegnata per nascita vorrebbe senza parola.
Voci di un mondo che, apparentemente, sembra da sempre uguale a se stesso e impermeabile a qualsiasi cambiamento.
Stornelli e rispetti, ninne nanne e ballate: un mondo di poesia che arriva da tempi remoti e che solo gli scempi delle ultime due o tre generazioni hanno provato a spazzare via. Forse non ci sono riusciti.
Da Paolo Ciampi, Beatrice. Il canto dell'Appennino che conquistò la capitale, Sarnus edizioni