«Take the waiting out of the wanting». Con la carta di credito l’uomo ha imparato che può godere oggi quello che avrebbe potuto permettersi domani. Qualche generazione fa amava ripetere refrain come «prima il dovere e poi il piacere». Qualche generazione fa parlava di progetti. Costruiva qualcosa nel lungo termine attraverso il ricorso al sacrificio, al risparmio. Alle rinunce del presente per garantire un futuro migliore a sé stessi e a chi gli sarebbe succeduto. Erano tempi contrassegnati da valori come pazienza, tenacia, umiltà.
Erano anni in cui si produceva, in cui le aziende manifatturiere rappresentavano, nel territorio in cui operavano, il centro di gravità della comunità. Trasmettevano quei valori che, se erano fondativi del lavoro in fabbrica, a tutti i livelli, lo erano anche della vita. Il paternalismo dei padroni, dei paron, degli imprenditori di ieri, certo, ha preferito troppo spesso la pacca alla palanca, un maggiore controllo dei costi all’ aumento della domanda dei prodotti stimolata da salari più elevati. E così facendo, il tessuto sociale ed economico dell’Italia di ieri ha finito con il basare la propria identità più sulla produzione che sul consumo. Per forza.
In un certo senso la creazione di risparmio, lo stringere la cinghia furono gli effetti sociali di un paese in cui la maggioranza della popolazione era costretta, per assecondare i propri desideri, a progettarli a tempo debito accumulando lentamente le risorse necessarie. Questo edificio sociale, che aveva nella classe dirigente democristiana il suo riferimento politico, cementò un paese che due guerre mondiali e vent’anni di dittatura avevano disarticolato. Da dentro.
Dopo la prima crisi petrolifera, il capitalismo, che per 50 anni aveva trionfalmente attuato quanto la e le filosofie positivistiche degli inizi del secolo scorso avevano elaborato, vide incrinare il suo impeto. Il capitalismo, che si basa su di un modello di sviluppo “infestante” che è capace di portare alle estreme conseguenze il ciclo di costruzione-distruzione schumpteriano, necessità sempre, bulimicamente, di nuove frontiere, di nuovi mercati. Idealmente di un mondo e di risorse infinite. Oppure, della capacità, affidata alla libera creatività dei singoli, di rigenerare sé stesso attraverso la creazione infinità, all’interno dello stesso mondo e delle stesse risorse, di nuovi bisogni e di nuova domanda che la produzione capitalistica prontamente, avidamente, si propone di soddisfare.
Ecco il punto. Ecco il grande bluff ordito dal capitalismo stesso, o meglio, da alcuni suoi rappresentanti più influenti. All’albeggiare degli anni 80, quando la saturazione di molti mercati di prodotto lasciavano intravedere una rarefazione della domanda e quindi l’esaurirsi di quella spinta senza la quale il capitalismo offre l’altra faccia di sé, quella della miseria e della povertà, si decise di trasporre nel mercato delle monete e del denaro i principi “infestanti”, di costruzione – distruzione tipici del capitalismo. Il consumo di un bene che doveva preparare il consumatore a necessitare di altri beni o dello stesso prodotto, in modo da alimentare in maniera rigenerativa il sistema, venne trasposto in pochissimo tempo nel mercato delle monete, e quindi nel mercato del debito.
Debito che poteva essere rimodulato, ceduto, soggetto a profili di rischio diverso. Spostato nel tempo. Ora, subordinato all’acquisto o cessione di cedole, di prime, di subprime. Derivato alla deriva.
Il capitalismo ha smesso di inventarsi cose nuove ma si è limitato ad offrire gli stessi beni a strati maggiori della popolazione mondiale. Scambiando i tempi, e quindi la consecutio. Prima il consumo e poi la distribuzione, la produzione, la progettazione, il concepimento. Un modello che, una volta entrato in circolo nella società, con la stessa velocità delle particelle finanziarie che lo hanno veicolato, ha trasformato la società di produzione di massa nella società del consumo di massa. Un esempio: i voli aerei low cost. Spacciati come l’eldorado della democratizzazione dei consumi, o meglio nella peggiore formula della democratizzazione attraverso i consumi.
Negli Stati Uniti, dove era già chiaro a Ford che chi lavorava nelle sue fabbriche era prima il consumatore e poi il produttore delle merci che in fabbrica contribuiva a realizzare, la globalizzazione ha avuto l’effetto di aumentare il debito pro-capite ma non ha modificato la società nei suoi meccanismi e valori fondanti. Era già, nei fatti, intimamente una società di consumo.
In Italia il discorso è stato ed è diverso. Perché qui da noi, dove tutto avviene sempre troppo rapidamente, pensate all’inurbamento delle città negli anni 70, non eravamo pronti ad essere solo consumatori. Il debito, come il fallimento, come il cosiddetto passo più lungo della gamba appartengano a una condotta che, qui da noi, è stata stigmatizzata da una cultura alternativamente catto-comunista o clerico-fascista. Per decenni.
Il risultato è che il nostro paese non riesce ad interpretare le regole dei gioco che il capitalismo mondiale si è dato. Gli aspetti positivi e quelli negativi del nostro suonare stonato nell’orchestra del capitalismo mondiale sono insignificanti e non creano né vantaggi, né svantaggi. Ed infatti siamo fermi. Non cresciamo anche se non andiamo in crisi come i PIGS.
Quello che non possiamo permetterci oggi non è tanto un tenore di vita che dovremmo finanziare a debito per adeguarci al coro, piuttosto l’aver smarrito quella capacità di creare cose nuove e belle che piacciono a tanti. Vi ricordate la vespa, la nutella, la macchina da scrivere Olivetti, la China Martini.
E’ molto probabile che oggetti come quelli non li costruiremo più in Italia, anche se la fabbrica rimane un tempio dello sviluppo cui nostalgicamente guardare, ma dobbiamo ritornare ad essere un faro nel mondo nel concept.