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E vi salutu, figlie delle rivoluzione

Creato il 16 ottobre 2011 da Postscriptum

E vi salutu, figlie delle rivoluzioneEh, lo so che dovevo parlare d’altro oggi (appuntamento al prossimo post, non vi anticipo l’argomento). Ma ieri la mia ragazza – alimentatrice di buoni vizi – mi ha regalato un vinile da birra e sigarette e non potevo non parlarne. E sia chiaro che ho qualche problema a recensire lavori di questa band. Forse perché è una band di cui sono supporter senza condizioni sin dal primo album, forse perché loro sono invecchiati mentre la peluria che sostenevo sotto il naso si tramutava in folta barba, forse perché li considerò l’ultima grande band seventies e l’ultima ad aver capito il senso di quel rock sino alle ossa, pur avendo partorito il primo esaltante Shake Your Money Maker (link Hard To Handle) in piena era grunge.
Insomma, avrete sicuramente capito che sto parlando dei Black Crowes. Band che, per quanto la adoro, meriterebbe ben più che queste poche righe. Persino Sua Santita il Pontefice ha messo in giro voce che la prossima Enciclica tratterà del mitico album The Southern Harmony and Musical Companion (link Sting Me). L’intento pastorale è da applaudire.

Io, personalmente, non mi permetterei mai di parlare del su menzionato disco, ma, nella consapevolezza dell’essere anch’io portatore della Parola (come ogni fratello, del resto), non posso rinunciare alla missione evangelizzatrice e dunque cercherò di dire qualcosa del doppio in vinile in questione, opera minore, se così si può dire, appartenente all’ormai fase classica di questa grandiosa band: Warpaint Live (e cioè il vinile regalatomi ieri), anno 2009. Concerto che segue il precedente fortunato Warpaint, album che in qualche modo segnò il ritorno al sound più corvino dei primi tempi, dopo qualche lavoro non troppo convincente ed una breve pausa di riflessione dovuta al matrimonio (con conseguente rammollimento) del cantante Chris Robinson e l’attrice Kate Hudson.

La storia è questa: la tipa, fortunatamente, lo lascia abbastanza presto da non recare grossi danni alla Band. Così Chris si fa crescere una barba con punte di inaccessibilità per noi poveri mortali sempiternamente sfiduciati sul futuro, da continui voti di fiducia. Chris, pieno di barba e voglia di rifarsi telefona a suo fratello Rich e gli dice: “sienti beddu, ci ll’hai ancora a chitarra? (trad: Carissimo fratello, ti interpello cordialmente per invitarti a farti portavoce dell’istanza di ricostituire quel gruppo di persone atte a suonare strumenti musicali che ci accompagnava fino a pochi mesi orsono!)”.

Warpaint fu appunto il grande ritorno della band, così esaltante da meritare un versione live appena qualche mese dopo, conseguenza di un Tour immaginifico. Ad aprire il live Goodbye Daughters of The Revolution(link). Le figlie, cioè, della rivoluzione americana, organizzazione femminile con finalità per così dire filantropiche e di promozione del patriottismo e della storia patrica (ne faceva parte anche Laura Bush, pensate voi…). Insomma, qualcosa che tutto è tranne che rivoluzionario. Pezzo tipicamente Black Crowes, potente e stonesy, corale e da inno, la miglior apertura per un concerto. Le due chitarre (Rich Robinson e l’ottima new entry Luther Dickinson) si incrociano come i migliori Richards e Wood. Il tutto suona molto caldo e southern (e non è solo questione di bottleneck). La novità è la perfetta esecuzione vocale di Chris, che nei live del periodo precedente non era andato sempre benissimo. Sono intenzioni bellicose quelle dei Black Crowes, lo si intuiva sin dalla splendida copertina dell’album, ma se mai ci fossero stati dei dubbi, questi sono completamente fugati dal secondo brano, il massiccio blues Walk Believer Walk (link)  , sempre in bilico tra gli Zeppelin, gli Stones e i Faces. Una vera marcia ossessiva. Chris urla e squarcia l’etere, come un corvo nero tra le calde lande del Mississippi più afoso.

Bisogna calmare gli animi, così interviene la splendida ballad Oh Josephine (link), degna erede di tante splendide precedenti quali Bad Luck Blue Eyes, Cursed Diamond, She Talks To Angels, e via dicendo. Lo spirito dei fratelli Allman aleggia, soprattutto nel solo finale.

La prima facciata del vinile si conclude con un brano non presente sullo studio album Warpaint: Poor Elijah – tribute to Johnson (medley)(link), un tributo, appunto, al grande bluesman Robert Johnson (link). Brano originale del duo Delaney & Bonnie (link) – tipo Albano e Romina, solo che questi ultimi facevano schifo – dal classico album On Tour With Eric Clapton del 1970 (che proprio non è come dire: Albano & Romina in viaggio con Toto Cutugno). Anche qui un grande assolo finale ricorda molto certe cosette di Duane Allman (che collaborò spesso con Albano, ops con Delaney).

Tempo di voltare la facciata del disco e controllare lo stato d’usura della puntina (che forse a breve dovrà essere sostituita) ed ecco che parte Evergreen. Anche questo è un pezzo proveniente da Warpaint in studio e qui colgo l’occasione per dire che non vi sono sostanziali differenze tra le due versioni, se non fosse che in concerto tutto è più divertente da ascoltare, compresi gli assoli, forse la cosa più giustamente differente per una band che ha le radici ben piantate nel blues e nelle lunghe improvvisazioni da jam band. In poche parole il live è il momento ideale per i corvi neri. Evergreen (link, studio version) suona molto meglio qui che non in studio. Attacco spigoloso, denso di hard rock e di cielo aperto del sud. Chris Robinson è inspiratissimo e canta come un dio mitologico, gli altri qui sono quasi psichedelici, tanto per non dimenticare uno dei gruppi di riferimento da sempre, i Grateful Dead. C’è un qualcosa di hendrixiano però che mi porta a far similitudini con i cugini Gov’t Mule (quintessenza e discendenza diretta della stirpe allmaniana).

I corvi gracchiano ancora impeccabili con la stonesiana Wee Who See The Deep (link studio version). Che c’è da dire su questo pezzo? Uno di quei riff di chitarra che non inventa niente ma che fa tanto bene alle orecchie bisognose di rock vero. Tanta classe, anche nel dialogo tra le due chitarre alla fine, ennesimo cliché ben atteso. Sembra di essere veramente tornati agli anni ’70 e alla fine del concerto si dovrà decidere cosa andare a vedere la settimana prossima: se gli Humble Pie o la nuova band di Rod Stewart.

Discorsi tutti validi anche per la successiva Locust Street (link studio), tipica country ballad dai suggestivi intrecci vocali. Solo un attimo per riprendere fiato poiché la seconda facciata chiude con la movimentata Movin’ On Down The Line (link studio version). L’attacco è pieno di riverberi e delay, psichedelico quanto ironico nel suo voler esser rassicurante (It’s alright, sister, alright…). La chitarra in slide ricorda ancora una volta Duane Allman, ma in preda a crisi interstellari hendrixiane. Chris Robinson urla gracchiante come il Joe Cocker dei bei ubriacosi tempi ed il pezzo parte suadente e dilatato, eppur a momenti diretto e preciso. Come quando il corvo comincia a suonare l’armonica sopra un riff granitico delle chitarre. Tipico pezzo crowesiano che ti allarga il cuore, tra i migliori dell’album. Il primo disco non poteva chiudere meglio, inserisco il secondo e già dai titoli mi accorgo di ulteriori chicche.

Ma prima tocca a Wounded Bird (link), ennesimo pezzo grosso, grossissimo e potente, denso di feeling. E, lo ripeto, i crowes non inventano niente, ma la fanno così bene che sembra facciano veramente parte di quel tempo andato e dunque non gli si può addossare alcuna colpa (a differenza dei Rival Sons, tanto per fare un nome). Qui c’è studio filologico dei generi suonati, sono stati compresi e digeriti, non c’è avventatezza, non c’è mai stata sin da quel lontano 1990. Intanto un ritornello dagli echi beatlesiani – non atipico per i corvi neri – mi ricorda per l’ennesima volta che tra quelle che conosco è la band americana a suonare meglio in maniera anglosassone.

God’s God It (link studio) è il pezzo successivo, bluesone del seminale reverendo Charlie Jackson (link). Ecco cosa intendevo per gusto e studio filologico, poche righe indietro. Chris Robinson è veramente esaltato, e la band non può che star bene. Whoa Mule (link studio) è la diretta conseguenza del pezzo precedente. Prima si studia e poi si compone. Il brano è gospel, blues primordiale, ancestrale, dylaniano senza volerlo. I Crowes acustici sono emozionanti, ma il pubblico sembra esaltarsi quando inizia la classica, epica, Bad Luck Blue Eyes Goodbye (l’ho citata all’inizio dell’articolo, ed ora eccola qui). Versione stupenda, nient’altro da dire. Giro la facciata al disco e mi accorgo che sto occupando troppe cartelle di Word. Ma stiamo finendo (purtroppo anche l’album).

Il Quarto Lato inizia con un raffinato piano, brano beatlesiano ad opera dei fratelli Robinson. Il pezzo è There’s Gold In Them Hills (studio version link), emozionante ed inglese più che mai con inserti di Sud degli Stati Uniti. Anche questo tra le cose migliori dell’album. Ed ecco le chicche: si comincia con Darling Of The Underground Press (link studio), pezzo inedito dei Crowes ma ben conosciuto dagli appassionati per esser stato suonato spesso live e per apparire in un bootleg studio album (doveva essere un album ufficiale) di cui adesso non posso parlare per motivi di vita o di morte (nel senso che qualche lettore potrebbe uccidermi, causa lunghezza dell’articolo). È anche b-side del singolo Remedy da Southern Harmony And Musical Companion. Gran bel pezzo, sempre un piacere ascoltarlo. Poi tocca a Don’t Know Why (link), altro brano la cui paternità è condivisa dal duo Bonnie & Delaney “più” Clapton (link brano originale). Ditemi se questa non è filologia? Proprio bello l’assolo finale. Ma la vera sorpresa è Torn & Frayed (link) di quel mostro a due teste (ma fatto di mezze teste) chiamato Jagger/Richards (dunque in totale è sempre una sola la testa). Il pezzo proviene da quel mitico album che fu Exile On Main Street (capolavoro assoluto del Rock) e non è la prima volta che i corvi neri lo suonano, ma questa volta il live è ufficiale e si sente meglio che nei bootleg. Altra sorpresona notevole è la finale Hey Grandma (link) dei Moby Grape (link a brano originale), che, diciamolo, ci sta tutta e per certi versi sembra indicare in maniera insondabilmente simbolica (e probabilmente involuta) il futuro di questo tipo di rock: i White Denim (ho trattato l’argomento nel post precedente). L’area di San Francisco è sempre fonte d’ispirazione. Buon lavoro, ragazzi. Lo auguro sia ai Corvi Neri (sempre più convincenti da quando sono tornati) che ai giovanissimi Jeens Bianchi. Alla prossima.

Babar Da Celestropoli


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